di Cristina Mazza


13 ore di viaggio su strade impraticabili.
Vince l’entusiasmo del viaggio sul disaggio di essere schakerati in continuazione, almeno ogni 100 metri: voragini stradali di fronte alle quali trovare fantasiose strategie per non rimanere impantanati o, peggio ancora, distruggere gli ammortizzazioni dell’auto con il rischio di sostare per ore in mezzo al nulla in attesa di…
A farci coraggio il meraviglioso mondo che si svolge dai finestrini ai nostri occhi che vede scorrere uomini e donne, bancarelle dai colori vivaci di frutta e verdura ordinata in modo quasi maniacale, risciò tirati a mano, bambini con in braccio altri bambini, donne con taniche di acqua trasportate sulla testa e uomini dai lunghi pantaloni con mani in tasca seduti ad ammirare la vita svolgersi attorno a loro e se ci scappa anche una sigaretta penzolante.
La domanda per quegli interminabili chilometri è nata spontanea e anche un po’ scontata sul motivo per il quale il sistema di governo non interviene per migliorare la viabilità che porterebbe ad uno sviluppo del turismo e del commercio maggiore di quanto ora accade. “Risposta non c’è …” la si cerca ma a noi neofiti di questo meraviglioso paese non è dato di trovare risposte che molti altri prima di noi hanno e stanno cercando da tempo.
Molto probabilmente le risposte sono molteplici ma di fronte alla povertà sconvolgente che appare ai nostri sguardi e le contraddizioni palesi, difficile non cercare accanitamente una soluzione. Ci si chiede dove finiscano gli aiuti umanitari, e anche qui si può solo supporre tentando di dare fiducia e trovare giustificazioni. Vero è che gli aiuti umanitari spesso percorrono una filiera importante prima di arrivare ai beneficiari finali.
Ci sovviene un pensiero che reputiamo concreto: sistemare le strade significherebbe forse interrompere la catena del commercio che avviene a bordo strada luogo, di acquisto e di vendita, di incontro.
Quindi la seconda domanda è: ci sarà mai un futuro o quanto meno una piccola possibilità di cambiamento per questo e per molto altro? Oppure i Tir continueranno a sprofondare nelle buche e a crearne altre, le macchine continueranno ad impiegare 13 ore per raggiungere Finarantsoa e l’aeroporto rimarrà una striscia di terra sulla quale scorrazzano le galline e gli animali spostandosi quando un aereo privato da 3000 euro a passeggero riuscirà ad atterrare. Ed è solo un briciolo dei pensieri che ci hanno attraversato.

Il Madagascar con Mozambico, Tanzania, Uganda, Etiopia, Kenya, fa parte dei paesi più poveri del pianeta.
Secondo il rapporto Africa’s Pulse redatto dalla Banca Mondiale e pubblicato all’inizio di aprile, questi paesi rappresentano il 60% della popolazione più povera del mondo.
Un’indagine semestrale sulle economie africane, rileva che l’attività economica è destinata a riprendersi nell’Africa sub-sahariana, sostenuta dall’aumento dei consumi privati e dal calo dell’inflazione. Il rapporto prevede che la crescita accelererà da un minimo del 2,6% nel 2023 al 3,4% nel 2024. Tuttavia, la ripresa rimane fragile a causa delle incerte condizioni economiche globali, dei crescenti pagamenti per il servizio del debito, dei frequenti disastri legati al clima e dell’escalation di conflitti e violenze.
Sono necessarie politiche trasformative per affrontare le disuguaglianze profondamente radicate che impediscono all’Africa sub-sahariana di sostenere la crescita a lungo termine e di ridurre efficacemente la povertà.
Già…


La strada si volge chilometro dopo chilometro aprendo scenari meravigliosi di umanità e di natura, che lasciano senza fiato ma che riportano costantemente alla mente la fortuna o il caso di essere nati dall’altra parte del mondo così da non mischiarsi con la polvere rossa e i piedi scalzi, con le pozze di acqua sporca dove ci si lava e ci si disseta, con il lavare i vestiti nel fiume, con il mangiare ciò che cade dalla tavola degli opulenti, con il chiedere l’elemosina, con vivere del poco che la terra offre, con i seni delle partorienti povere di alimento per i propri figli, con gli ospedali poco attrezzati, e con molto altro ancora.
Fianarantsoa “la città dove si impara il bene” appare ai nostri occhi come un miraggio dopo 13 ore di dondolamenti. La deviazione per Ankofafa passando attraverso il mercato e su fino al don Bosco e poi ancora più su fino ad Ambalakilonga ci sembra la terra promessa. Ancora di più sappiamo che nel buio della notte ci aspettano fin dalle prime ore del giorno, quegli italiani che hanno scelto da tempo di so-stare per contribuire con ESF a migliorare le condizioni di vita di adolescenti e giovani.
Ho vissuto questo tempo come un dono, ho respirato per fare spazio al compito che mi aspettava. Ho accolto tutto quello che è arrivato, fatto tesoro, ho parlato tanto con tutti. Abbiamo affinato, cucito, modellato, cambiato. Abbiamo fatto silenzio e recitato infinite volte il Padrenostro. Ci siamo dati obiettivi e guardato un po’ più in là, nelle vite di chi sta, e per le vite di chi passa di là.
Ma non ho mai smesso di vivere la contraddizione dentro di me, quella della povertà e della ricchezza, della fortuna e della sfortuna, delle possibilità e delle impossibilità, della mancanza di cibo e del mio abbondante sulla tavola.
Al di là del cancello blu c’è una vita che cammina.
E allora, dico con forza che ognuno fa quello che può e che riesce, con l’attenzione all’essere umano valorizzando ciò che c’è, chiamandolo per nome restituendo cosi dignità.
È quello che ho fatto.
E nelle 13 ore che mi hanno riportato ad Antananarivo, nuovamente schakerata dentro l’abitacolo di una piccola auto, mi sono presa quel tempo necessario ad attendere che “Dio avvenga”.

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