Scritto da Gabriella Ballarini

Seduta al tavolo di lavoro della casa in cui sono nata, rimetto la playlist delle nostre due settimane di Campus a Milano, apro il quaderno e inizio a rileggere.

Il quaderno riporta subito un disegno di David che racconta il concetto di Comunità e dice: amici, consapevolezza, responsabilità, coscienza, solitudine, fiducia, solitudine, amore, ruoli, confine, straniero, relazione, ruoli, organizzazione, nutrimento, condividere.

Dalla cassa arriva Marracash che dice:

Guardando quei problemi grossi che si fanno enormi

Quelli brutti sono diventati bei ricordi

Quelli troppo brutti li ho rimossi

E sono rimasti i dubbi, dubbi, dubbi

Martellanti dubbi, dubbi, dubbi, dubbi

Dubbi, dubbi, dubbi

Martellanti dubbi, dubbi, dubbi, dubbi

Ma cosa è successo nelle tre settimane del Campus di Milano?

Sono successe molte cose prima che avvenisse, molte cose che diventano importanti per il presente e per il futuro.

Il primo motore che abbiamo avviato già molti mesi fa è stato il lavoro di rete sul territorio.

Per mettere insieme le mappe del futuro, bisogna lavorare al presente e farlo abitare dalle possibilità. Le reti non sono altro che relazioni. Lucia uscendo dall’aula l’ultimo giorno mi ha guardata e ha detto: oh, se partono altri Campus chiamateci, noi ci siamo, per qualsiasi cosa.

Qualsiasi cosa.

Dentro queste due parole c’è la possibilità di futuro.

Dentro quel saluto con la mano che sventolava in aria, c’erano tutte le pagine scritte in 5 giorni, i passi fatti insieme, i racconti sugli sconosciuti scritti in metropolitana, le sagome che parlavano con le loro voci registrate e amplificate dalla cassa rossa sul pavimento.

E così quelle due parole me le sono appuntate e le ho inserite nel mio report di fine attività come monito, per ricordarmi che qualcuno mi ha lasciato la porta aperta e io non posso ignorarlo.

Con i ragazzi della comunità Exodus di Milano abbiamo costruito una città:

“la nostra città è il lavoro di tanti, di tante mani e pietre, taglierini, colla a caldo.

La nostra città è solitudine, fuga, bellezza, è stare a guardare senza fare niente, immobili, senza parole. La nostra città sono io che non posso smettere di farmi domande e voi che mi chiedete: ma che stai dicendo?”

E Paky canta quando piove e, mentre scrivo sento:

A diciott’anni avevo iniziato col rap (Col rap)

Lo stesso giorno che a mio zio l’hanno ammazzato (L’hanno ammazzato)

Qua si spara i fuochi e non è capodanno

Mio fratello che è uscito da carcerato

Quando l’hanno arrestato non riuscii ad abbracciarlo (Ah)

Arrivai sotto casa e già se l’erano portato

Gli sono entrati in casa e non poteva fare altro

Sapeva cosa cercavano e dopo l’hanno trovato

Se mi chiedi cosa provo (Ah)

Pensa come a quando fuori piove (Ah)

Non mi bagna perché la pioggia

È dentro di me

Abbiamo abitato la musica come narrazione del contemporaneo e come racconto di quello che non sappiamo dire e qualcuno lo dice per noi, lo mette in rima, ma anche no.

La prima settimana, nell’aula e nel parco, dentro al caldo irrespirabile di Milano c’era un gruppo di piccolini, un giorno abbiamo proposto di disegnare le loro sagome e per due ore (che per un bambino di 6 anni sono la cosa più vicina all’eternità) hanno delineato contorni, disegnato dettagli, creato storie dentro al loro corpo a dimensione naturale. Come a dire: io sono, ci sono, mi vedi?

Anche gli adolescenti hanno abitato i loro corpi al grido (sordo) di IO SONO:

Io sono il ramo spezzato

La foglia caduta

La foto con il cappello da cuoco

Alessia e gli amici

Un cuore pieno di tanti cuori

I manga, la mamma

Io sono un abbraccio

I debiti

Gli occhi nelle braccia

Il Duomo nella pancia

Io sono un giradischi rotto

Un ponte

Una spiaggia al tramonto

Una ferita sul piede

Io sono il mare nel ventre

Il cuore che sente male

Io sono la dea

La ballerina

La mamma e la nonna

Io sono il primo giorno di scuola

Le tasse

Il lavoro

Io non sono abbastanza forte

Io sono una roccia

Io sono io.

Credo che questi 15 giorni di meraviglia mi abbiamo permesso di rinegoziare profondamente il concetto di Senza Frontiere che sta lì, chiaro e protagonista nel nostro nome.

Senza Frontiere, senza Scappare.

Senza Frontiere, senza Partire.

Senza Frontiere, senza Paura.

Così come un mantra me lo ripeto oggi, che sono qui e ascolto la nostra musica e rileggo le nostre parole. Sono pronta, in questo anno formativo che sta per ricominciare, a prepararmi allo stupore.

A settembre torneremo all’Istituto Rizzoli per le arti grafiche, torneremo dall’Opera San Francesco per i poveri, torneremo in Cascina e ci rimetteremo al lavoro per nuove pagine da scrivere, arriveranno nuove e nuovi ESF e saranno mese indimenticabili.

Forse CIAO suona meglio di ADDIO. cit.

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