di Laura D’Addario

La jeep sobbalza da una parte all’altra, corre nella rossa terra sparsa per la vegetazione incolta, mai toccata. È tutto più verde di quello che uno si immagina; lungo la via si incontrano bambini che giocano con le ruote delle auto, salutando energicamente chiunque passi e si affacci dai finestrini; per quelle strade è raro ricevere visite.

Una donna vestita di blu, rosso e giallo trasporta sulla sua testa un’enorme scatola di metallo, è elegante. Sembra sfidare qualsiasi legge della fisica, perché lo sai che quello scatolone è troppo pesante. Si abbassa per sistemare la ciabattina con la quale cammina per lo sterrato e si rialza con fluidità. I suoi piedi raccontano quello che quasi ti sfugge, quello che il portamento sembrerebbe celare: il sacrificio; portato con la forza innata di un’eroina in quel trinomio insolito di colore, nel bel mezzo del giallo ocra della paglia.

È la giornata dei panni. C’è acqua, tanta acqua. Più acqua dello stereotipo bidimensionale dell’Africa che hai. Il fiume è pieno, scorre velocemente. Cerco di catturalo in una foto, ma è un attimo e il momento è scappato via, resterà solo un ricordo, non vi sarà traccia, come del resto la maggior parte delle cose nascoste qui.

È passata un’ora. La chiesa è centrale. È fatta di terra e paglia, ordinata comunque. Le panchine di legno sono poste su due file verso l’altare, anch’esso di terra. Gli abitanti entrano, anche noi prendiamo posto. I canti risuonano nelle pareti, fanno irruzione nel petto è magia. La chiesa in quel momento sembra il centro del cosmo. I panni sgargianti e l’entusiasmo della gente, è quella la vera bellezza. Ma non è la bellezza delle cose, del bel posto, dell’architettura più strabiliante, è il bello dell’umano. Quello che ti tocca nel profondo, che muove montagne e tocca cieli, che ti stringe la mano con un sorriso, che accoglie calorosamente uno sconosciuto e che fa del fine giornata la più maestra delle fiabe.

Di solito occorre tempo per comprendere la bellezza ed estasiarsene, eppure, per questa volta, ci è stato concesso di cogliere il sublime al primo ascolto.

La strada del ritorno è piena di contraddizioni e ricca di dettagli. Più guardi e più dettagli scorgi. Quando la riosservi è come se la guardassi con gli occhi della prima volta, il bar “cafè dos amigos” giureresti che prima non fosse lì, e invece c’è sempre stato, ma non eri riuscito a coglierlo. Dal finestrino dell’auto vedi la verità del mondo che cozza con gli ideali morali e che mette radici nell’infanzia negata e nella maternità rubata. Siamo a Luanda, la città dei sogni, e dei sogni infranti. Lei è la chiave della tua coscienza, perché sai che anche lì c’è del tuo.

Luanda è il tuo testimone scomodo che vorresti sparisse.

Luanda è la città incantata.

Ciao Luanda.

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