di Elisa Guidotti

Arriviamo a O Pedrouzo la mattina presto. Mancano poco più di 20 chilometri alla Cattedrale di Santiago de Compostela, la nostra meta finale.

I nostri corpi ci dicono che abbiamo bisogno almeno di un giorno di riposo.

Poi ci rimetteremo in cammino, speriamo che i nostri piedi non siano troppo sconvolti quando li rimetteremo dentro a delle scarpe chiuse.

Guardo Giulia e Mario dormire e mi chiedo se non abbiamo chiesto troppo a noi stessi, se non abbiamo fatto abbastanza attenzione a quello che il nostro cuore ci stava dicendo. Ce lo ha dovuto dire in maniera brutale il nostro corpo.

FERMATI, che va bene comunque.

Fermati, perché ho bisogno di stare sdraiato per un po’ prima di rimettermi a camminare.

Febbre, muscoli che fanno male, vesciche e tendiniti.

Quanto riusciamo a sopportare prima di capire che non si vince nulla, che quello che stiamo facendo è già camminare? Che è già cambiare?

Camminare è mettere un piede davanti l’altro, perdendo l’equilibrio per una frazione di secondo per poi recuperarlo.

Smarrirsi, per ritrovarsi.

Guardo Mery e Matteo prepararsi per la loro camminata. Lo sguardo attento di Matteo, con il suo passo sicuro e veloce. Che si ferma a parlare con tutti che ha sempre la parola giusta da dire. Che si arrabbia, ci rimane male ma trova sempre il lato buono delle cose.

Mery, che va avanti nonostante tutto, che ti dà forza ed energia quando cammini. Che guarda il mondo con il suo sguardo curioso. Che prova a trovare il senso a tutto quello che stiamo facendo.

Ecco, perché stiamo facendo tutto questo?

Questa domanda mi ha fatto pensare, mi sono interrogata. Già prima di partire provavo a cercare il perché di iniziare un viaggio sul Cammino di Santiago, il doversi alzare presto e camminare per raggiungere la Cattedrale. Tutti i giorni, per almeno nove giorni.

Il nostro lavoro, ha senso? Come siamo, come ci poniamo noi di fronte agli imprevisti? Quando hai programmato un viaggio da così tanto tempo e poi tutto cambia, all’ultimo giorno? Cos’è il disorientamento?

Credo che il nostro viaggio sia il viaggio dell’esplorazione, il primo che Educatori Senza Frontiere abbia mai fatto in questo modo. È il viaggio della consapevolezza, di chi sono io come Persona, come essere umano.

Tutto questo ha senso?

È il viaggio della scoperta, delle nostre risorse e dei nostri limiti, di chi siamo noi e chiamo noi all’interno di un gruppo, con altre persone. Nonostante tutto, il dolore, la fatica, i litigi, le risate, le canzoni, siamo dei pionieri.

E siamo una forza, insieme.

Ci siamo ritrovati a viaggiare a piedi per nove giorni, con il nostro zaino sulle spalle. Abbiamo provato a metterci dentro l’essenziale ma ci siamo resi che era comunque troppo. Abbiamo perso per strada tutte le cose inutili, che poi abbiamo dimenticato.

Ci siamo goduti tutto di questo cammino, dai sorrisi al canto, dai litigi ai momenti di confronto, ai chilometri di strada percorsi che non finivano mai. Sotto il sole o al fresco dell’alba. Abbiamo camminato sotto il sole caldo che ci ha teso degli sgambetti. E poi abbiamo camminato di notte, che ci ha costretto a stare vicini, per non perderci, per poterci ascoltare meglio.

Forse il senso è proprio questo. Il non rimanere immobili, l’ascoltare quello che il nostro corpo ci deve dire ed essere sinceri con lui. Guardare avanti per arrivare alla Cattedrale, alla meta, godendosi anche l’ultimo metro per non perdersi nulla. Rendersi conto che tutto questo non sarebbe stato facile, o possibile, da soli.

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