di Mary Rossi

“Per ogni partenza c’è sempre un ritorno degno di essere vissuto »
Eravamo sedute davanti al nostro cancello blu a guardare le stelle quando abbiamo fatto questa riflessione..
Quando vivi ad Ambalakilonga per poco o molto tempo impari l’arte della contemplazione, e allora contempli la terra, il cielo, le stelle, il giorno, la notte, i sorrisi, gli sguardi, l’uomo, l’umano…

Ma su questa elevazione dell’animo sopra ogni modo ordinario di conoscere ed entrare in relazione mi ci soffermo dopo e riprendo l’immagine del ritorno, perchè è da questa che voglio iniziare a raccontare.
Sono ritornata da dove son partita e sono ritornata diversa : occhi nuovi, cuore leggero e pieno. Non c’è giorno che un semplice odore, un colore, un suono non mi riporti alla mente le immagini dei momenti vissuti ad Ambalakilonga, me le tengo strette e le conservo.
Ricordo di quando ero piccola che ogni volta che mia nonna mi regalava qualcosa mi diceva sempre « Tien e mi raccomando stipatelll» (questo è pèr te e mi raccomando conservalo)

Quando decidi di andare verso l’altro ti assumi la responsabilità del dono. Un dono scambiato e ricevuto. Vivere in comunità è dedizione che non implica sottrazione del sè ma è nell’essere dedito all’altro che ci si prende cura di sè stessi, ci si affida, ci si fida. Il rapporto che instauri con i ragazzi è di continua fiducia, è restituzione. Ogni volta che avviene uno scambio restituisci all’altro quello che ti è stato donato sotto forma nuova, quella che passa per la riconoscenza e la gratitudine.
« Tien e mi raccomando stipatell »

E allora conservo quello che mi è stato donato, conservo il ricordo degli abbracci, dei sorrisi, delle paure, della timidezza, della fragilità mascherata con la durezza, della maglietta a righe, del bucato disteso al sole, della terra, delle mani, delle persone. Li conservo per fare in modo che durino il più a lungo possibile.
E quella sera nel contemplare il cielo e le sue stelle, davanti al cancello blu, ero già ritornata ed ero già diversa. Il tempo era lento e pieno, il silenzio aveva voce, il sapore del mango era buono, i miei piedi camminavano scalzi la terra, ero in armonia con essa. Si comunicava entrando in empatia, i gesti e gli sguardi erano più efficaci della parola. D’altronde la lingua madre non bastava.

Poteva sembrare un grosso limite:
– « ciao » gli dicevo,
-« salama » mi rispondevano.
E poi ? « vorrei dirgli tante cose, ma non so come fare », pensavo.

Ogni dettaglio, ogni gesto, ogni movimento allora è diventato fondamentale, andava contemplato nella sua pienezza e bellezza, è stato questo il segreto per comprendersi.
Eppur ci si comprendeva. Con F., per esempio non c’è stata molta parola, è un ragazzo dalla timidezza disarmante e fragile. I suoi occhi hanno una profondità tale da rompere i confini del non detto, del non saper dire del non voler dire. Lui non ama condividere eppure ha condiviso molto- il potere della non parola, la contemplazione del silenzio che ha voce.
E’ straordinario ma ad Ambalakilonga I legami sono fatti anche di silenzio.

Sono qui che scrivo, e mi chiedo come stai, cosa stai facendo. Ripenso alla tua aria spavalda, al tuo contagioso sorriso, alla tua maglietta a righe, al tuo dente ancora di latte…

“Tanga Soa” (benvenuta), mi dissero

Sono grata alla vita per avervi conosciuto, rispondo io.

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