di Silvia Grugnaletti

Huambo, 8 luglio 2019

Ci prepariamo per una riunione d’equipe educativa mentre il sole comincia a nascondersi dietro le case, al di là del campo di calcio. Nel cielo, i colori del suo scomparire: arancione, rosso, rosa, violetto.
Io, Francesca e Giovanni ci sediamo fuori dall’ufficio, sul marciapiede, aspettando l’arrivo degli altri componenti dell’equipe e parliamo del più e del meno. Non facciamo caso ai minuti che passano, ma al cielo che sta cambiando sopra di noi sì. Francesca prende il telefono e fa qualche foto a ciò che resta del sole, mentre io guardo i miei compagni di viaggio e li vedo felici. Mi chiedo se sia solo un riflesso di ciò che sento io adesso e allora dico “facciamoci una foto!”.

Eccoci qua. Noi tre, così diversi, complessi, stanchi…
Sì, sembriamo proprio felici ed io credo che lo siamo davvero, almeno in questo istante.
Guardo la foto e vedo tutta la gioia di quel momento, che è diversa da tutte le altre gioie che abbiamo già vissuto e da quelle che incontreremo. Non ho il diritto di parlare al posto loro, ma mi basta vedere Giovanni giocare con i ragazzi e sapere che Francesca si sta prendendo cura delle volontarie. Mi basta chiudere gli occhi per percepire la serenità che mi porto dentro, da quando sono tornata a casa e la nostalgia l’ho riposta in uno dei miei cassetti, almeno per un po’. Da quando ho visto mio fratello prendere in braccio e guardare sua figlia, ed ho riconosciuto l’amore che ci ha cresciuti. Da quando so che tra un mese i miei genitori saranno qui e potranno vivere tutto quello che in questi anni non sono mai riuscita a raccontare, quando mi sedevo a tavola la sera e non sapevo cosa dire dopo uno, due, tre mesi passati a Huambo. Non sapevo da dove cominciare né se fossi riuscita a fermarmi, perché avevo la sensazione di aver vissuto un tempo sospeso in un’ampolla di vetro fragilissima, dove la gioia dell’esserci per qualcuno e la felicità delle piccole cose, sbattevano contro le pareti per far uscire le incomprensioni, le difficoltà, le sfide quotidiane di quando si vive e si convive con una cultura diversa.

Questa casa che viviamo da febbraio è un “laboratorio sperimentale della speranza”, dove ogni mattina ci alziamo dal letto e sappiamo che potrebbe succedere di tutto o forse no, è solo un giorno normalissimo.

È in questa casa e con questi ragazzi che, avvicinandosi con fiducia per sottrarsi alla solitudine di soffrire da soli, mi chiedo se si può imparare l’arte della gioia e della felicità, non lasciandola sempre in mano agli altri, al caso e alle circostanze, ma farla nostra come un’espansione di noi stessi. E chissà se gli educatori possono educare a quest’arte, per poter comunicare con il sogno di felicità che tutti si portano dentro, anche se è solo una versione provvisoria e incompiuta di un sogno ancora più grande.

Perché vedere l’incompiuto non come fallimento ma come possibilità, ci fa ricominciare da zero e per l’ennesima volta ogni giorno, perseverando e aspettando di veder nascere ciò che abbiamo faticosamente seminato negli anni, da lontano e da vicino, con costanza, passione e dedizione.

E in questo nostro educare nel mondo, sapere che la felicità e la gioia sono già dentro di noi, ci rende ancora più liberi dalle frontiere, ci ricorda che ogni essere umano ha il dovere dello gioire e il diritto dell’esser felice, in qualsiasi circostanza.
Mi dico di essere felice perché mi sento fortunata, perché essere in questa terra è un dono della vita e del destino.

C’è un detto angolano che dice: “chi muore per amore, muore felice”.

Non staremo facendo tutto questo per amore?

Chi per amor proprio, chi per gli altri, non importa.

Ma ho la sensazione che ci stiamo, in qualche modo, salvando.

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