di Maria Grazia Madrau

Da diversi giorni mi chiedo come si possa raccontare un’esperienza del genere senza annoiare o finire per essere scontati, questo aspetto è venuto fuori più volte nel confronto col gruppo di colleghi durante la nostra permanenza in Madagascar e ora che ho davanti a me un foglio bianco questa domanda mi risuona ancora più forte nella testa. Proverò a scrivere di questo viaggio di crescita, illusione e disillusione, consapevole che forse non renderà perfettamente l’idea di quello che è stato, ma potrebbe far nascere in qualcuno una certa curiosità, un nuovo stimolo o consapevolezza, e se questo avverrà, allora sarà già un enorme traguardo.


Ancora faccio fatica a realizzare di essere ritornata a casa, nella mia solita routine, mi sembra di camminare le stesse strade di sempre, di abitare lo stesso luogo che ho lasciato un mese fa, piena di domande, ma con occhi e orecchie diversi, con mani diverse, piedi diversi, come se la mia anima fosse cambiata, arricchita di colori, odori ed espressioni che l’hanno modificata dandole una sfumatura che forse vedo solo io, ma che mi pare si senta riecheggiare potente ad ogni respiro o battito di ciglia.


Ripenso a quante volte mi è stato detto da chi quell’Africa così lontana ed esotica l’aveva già vista, che è una terra che ti resta dentro e che il rientro è molto difficile. Quante cose in questo viaggio la mia immaginazione non era riuscita minimamente a disegnare; nonostante il mio sforzo di uscire dai soliti schemi mentali, personali o sociali, certe immagini mi hanno lasciato senza parole, a volte meravigliandomi, altre prendendomi letteralmente a schiaffi. L’avevo già messo in conto, penso, lo sapevo già, eppure non l’ho saputo davvero finché non mi sono trovata lì, a migliaia e migliaia di km da casa, in un posto lontano dagli occhi e dal pensiero di un occidente intero.


Siamo arrivati a destinazione dopo un viaggio lungo, non abbastanza però per prepararci a tutto ciò che ci aspettava al nostro arrivo. Sin dal primo momento i colori di questo luogo mi riempiono gli occhi ed il cuore, il verde brillante delle risaie in contrasto col rosso della terra e con un cielo di un azzurro cangiante mi lasciano a bocca aperta. Le strade sono molto diverse da quelle a cui siamo abituati, sono strette e piene di buche, l’asfalto è pressoché inesistente e non danno idea di essere granché sicure, difatti non lo sono, per fare 400 km ci vogliono almeno 10 ore tra curve, tir che ti sfiorano e fossi dove ci sta una macchina intera. Già dai quei primi km notiamo che non solo il paesaggio è diverso, ma lo è anche la società, da subito si presenta ai nostri occhi una povertà a cui non siamo abituati, di cui abbiamo certo sentito parlare e visto forse qualche sporadica immagine, che impallidisce però di fronte alla realtà fatta di famiglie per strada, bambini che lavorano vendendo frutta o facendo l’elemosina, gente che vedendo i “Wasà”- i bianchi- cerca in tutti i modi di avvicinarli un po’ per curiosità, un po’ nella speranza di ottenere qualcosa, qualsiasi cosa, che possa aiutare loro e la loro famiglia ad arrivare a fine giornata. Le vie e i villaggi che incrociamo però sono anche un brulicare di persone, mamme con i bambini legati sulla schiena, bambini che portano nello stesso modo altri bambini, mercatini, carretti e animali, sono vive e danzanti, un qualcosa a cui non siamo più abituati noi che viviamo in città quadrate, pulite e regolari, evolute se vogliamo, ma stranamente silenziose, dove c’è una legge per tutto, ma la gente sorride e si parla sempre meno, dove si sta in un posto senza abitarlo davvero, dove si sta con la gente, ma senza creare comunione.


La nostra destinazione è Fianarantsoa, la seconda città più grande dopo la capitale Antananarivo, una città tutt’altro che turistica, dove si vive l’essenza del posto, croce e delizia. Ad ospitarci sarà la comunità di Ambalakilonga- che significa letteralmente città dei ragazzi- fondata da Educatori senza frontiere per ospitare ragazzi di strada e che ha creato al suo interno anche la scuola materna, la scuola professionale per educatori e una casa del turismo responsabile.


Ambalakilonga ci ha accolto a braccia spalancate, siamo arrivati da sconosciuti e ci siamo ritrovati a far parte di una grande famiglia che da subito ci ha dato il benvenuto, non a parole certo, il malgascio è una lingua complessa e nessuno di noi lo parlava, ma con quei gesti che non hanno bisogno di spiegazioni e che ti fanno dire “sono a casa”. Inizialmente è stato difficile trovare la chiave per inserirsi personalmente e professionalmente in questa realtà, ma sono stati gli stessi ragazzi della comunità, quelli della scuola professionale Human, i bambini della maternelle e tutte le persone che abbiamo incontrato come utenti o collaboratori che ci hanno pazientemente aiutati a trovare la misura e il giusto modo per stare dentro questo contesto, semplicemente vivendo, attraverso uno scambio reciproco diventato via via sempre più intenso. Rimane vivido in me il ricordo di tutte quelle conversazioni abbozzate all’inizio con un francese stentato e per lo più a gesti, che hanno accorciato le distanze anziché aumentarle, perché la voglia di scoprirsi era veramente tanta; i momenti in cui cantavamo tutti insieme quei circle song per inaugurare le giornate e salutarci, canzoni da cantare in cerchio che non avevano nessun significato letteralmente, ma il cui significato simbolico ci ha stretti gli uni agli altri unendoci in un legame che va al di là della nazionalità, o ancora il momento del canto della preghiera quotidiana, ogni giorno alle 18.30 in una piccola cappella in cui si respirava una fede e un amore che raramente ho sentito nelle grandi cattedrali che ho visitato in giro per il mondo.

Sono tanti i momenti che custodisco gelosamente nella mia memoria e nel mio cuore, momenti di unione e di relazione creata senza alfabeti e senza linguaggio, fatti di sorrisi, di voglia di capirsi pur parlando diverse lingue, voglia di stare insieme e di conoscersi, di scambiarsi vita ed emozioni, momenti di saluti con il pugno battuto prima contro il pugno dell’altro e poi sul proprio cuore, il più bel gesto di saluto che io abbia visto nella mia vita finora. Momenti di formazione in cui mentre cercavamo di insegnare imparavamo tantissimo, in cui abbiamo aperto gli occhi su tante cose che ci sfuggono puntualmente presi dalla frenesia della nostra vita e che qui, dove si vive “mura mura” -“piano piano”- sono invece intuizioni vive che non puoi ignorare.

Tutte le persone che ho incontrato hanno lasciato in me una traccia, dalle persone con cui e per cui ho lavorato -oltre ai bambini e ai ragazzi delle scuole interne ad Ambalakilonga e della comunità anche le suore Cappuccine e Getsemani con cui svolgevamo le lezioni di italiano, le maestre e gli educatori locali e di altri enti-, alle persone che invece ho incontrato per caso -il tassista, la guida turistica, i bambini dell’orfanotrofio più grande d’Africa e quelli incontrati fugacemente durante le gite all’aperto o il lavoro nelle scuole del territorio. Ognuno di loro, nonostante problemi che per noi sono lontani anni luce, legati alla sopravvivenza, alla fame, alla malattia, mi ha dato in qualche modo un assaggio di quell’amore per la vita incondizionato che raramente ai giorni d’oggi riusciamo ancora a provare, nonostante la nostra società occidentale non combatta quasi più battaglie di sussistenza e possieda tutto il necessario e molto più del superfluo.


Tutti questi fattori, cose bellissime e cose bruttissime sono stati difficili da assimilare e mandare giù, così lontani da tutto ciò che è familiare e dalle persone care, a questo proposito una delle cose fondamentali in questa esperienza è stato il gruppo, sono partita con dei colleghi che conoscevo a malapena e che in un mese sono stati per me casa, non smetterò mai di ringraziare ognuno di loro per aver condiviso questo viaggio con me. In formazione con ESF più volte ci era stato detto che durante queste esperienze lontanissimi da casa la nostra risorsa principale sarebbero stati quegli sconosciuti che partivano con noi, qui mi sono resa conto che è proprio vero, si crea un legame particolare, che va oltre, e quel gruppo di sconosciuti diventa poi per te come una famiglia che ti salva, è la tua forza.

Penso che senza il supporto dei colleghi che avevo accanto mi sarei persa più volte, nel buio del senso d’impotenza che ti aggredisce violentemente quando ti rendi conto che non puoi cambiarlo questo mondo, nella nostalgia di casa che si è fatta sentire particolarmente durante le festività o nella difficoltà quotidiana di abituarsi ad una realtà diversa, dove anche le cose che per noi sono più scontate come il cibo, l’acqua, lavarsi e avere un tetto, non lo sono affatto. Non so se tutti i gruppi di volontari in partenza siano così affiatati, eterogenei di una diversità che arricchisce e offre sempre nuovi spunti, connessi e uniti personalmente e professionalmente come lo siamo stati noi, ma mi sento profondamente legata a tutti loro in modo indissolubile e sono grata di questo regalo enorme, uno dei tanti che porterò sempre con me.


In questa terra lontana ho capito che nell’evoluzione e nel progresso economico della nostra società noi abbiamo perso qualcosa, a quel qualcosa non so dare un nome, ma lo vedo in tante immagini: i bambini che sostano davanti all’ingresso della scuola bramando per entrare mentre spiano dalla fessura sotto al cancello e mi salutano, il sorriso di bambine che sono già donne e si occupano dei fratelli minori naturalmente, come fossero figli, i ragazzi della comunità che preparano un presepe fatto con le loro mani e allestiscono una gara di ballo mettendo da parte dolori troppo grandi per essere descritti, i pacchetti dei regali fatti rigorosamente a mano da ognuno di noi e disposti in cerchio nella cappella il giorno di Natale, i gruppi di bambini che per strada fanno clan e si occupano l’uno dell’altro spontaneamente e poi tante, tante, tante altre che non basterebbe una vita per disegnarle tutte.

Perché quelle espressioni e quegli sguardi, quell’entusiasmo e quella gioia di vivere che ho sentito, quegli auguri fatti col cuore a noi e alle nostre sconosciute e lontane famiglie, avevano il sapore di un senso profondo della vita che forse in queste case fatte di argilla, di fango e di paglia, tra questi sorrisi sdentati che sbocciano nonostante tutto, si è mantenuto vivo e caldo, come un fuoco che deve riscaldare animi che ben poco altro hanno per ardere, ma che non smettono mai di farlo.

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