di Monica Cimbro

Nasce come uno scherzo, nella sede di Radio Maria a Viana, un municipio alle porte di Luanda con quasi due milioni di abitanti, l’hashtag tormentone di questa nostra avventura angolana. È la risposta improvvisata e inconsapevole (forse non del tutto!) di Laura, la più giovane del nostro gruppo, alla domanda di Eugenia, la conduttrice del programma radiofonico del mattino: “Cosa pensi di portare in Angola?”. Ridiamo tutte, anche lei, che si é trovata un po’ spiazzata perché nulla era stato concordato prima della trasmissione.

Poi, giorno dopo giorno, l’apertura mentale diventa un requisito indispensabile per accogliere ed accettare un mondo così diverso da quello in cui siamo abituati a vivere. Ci libera dall’istinto di giudicare, dal bisogno di dovere capire a tutti i costi, ci interroga e fa persino vacillare quelle che riteniamo essere le nostre certezze, rivelando piuttosto le nostre paure.

Provo ad essere più esplicita. Luanda, la capitale dell’Angola, è, a detta degli stessi angolani, il regno della “confusão”. Quasi 9 milioni di abitanti su una superficie che fino agli anni 70 del secolo scorso ne ospitava solo mezzo milione, così che la densità di popolazione attuale é pari a circa 71.000 abitanti per km quadrato.

Pensate che in Italia il comune con la maggior densità é Portici con 13.000, mentre Milano e Napoli ne hanno appena, si fa per dire, 7.500. Aggiungete un traffico incontrollato di auto, autocarri, moto, altri mezzi di fortuna e taxi collettivi di colore azzurro, chiamati “candungeiros”, che non bastano mai per la moltitudine di persone che sin dalle prime ore del mattino affolla i marciapiedi.

Perciò se chiedi ad un luandese quali sono le sue maggiori preoccupazioni, puoi stare certo che tra le prime tre figura il trasporto, perché condiziona inevitabilmente l’andamento della giornata ed é spesso responsabile del ritardo cronico di qualsiasi attività. Pretendere la puntualità può dunque rivelarsi estremamente frustrante per chi considera il tempo una certezza.

A Luanda il tempo é quando qualcosa avviene, perciò non esiste il tempo perso. I minuti di attesa possono diventare ore, senza che ci sia ombra di disappunto in chi attende né imbarazzo in chi finalmente giunge alla meta. Una normalità che ci mette più volte in difficoltà, che fatichiamo ad accettare perché ci costringe a cambiare programma. O forse, per tornare alle nostre paure, ci fa semplicemente sentire che il tempo scorre via, inesorabilmente.

L’imprevisto sembra la regola e quando finalmente ci lasciamo andare scopriamo l’apertura mentale nell’altro. Come quando alla Scuola di Nostra Signora di Guadalupe insegnanti e collaboratori si fidano di noi, rinunciano ad un paio di giorni di ferie, e si mettono in gioco, nel vero senso della parola, per riflettere sull’importanza del gruppo.

Due mezze giornate di formazione che ci schiudono il cuore e gli occhi ad una realtà complessa, in cui diversità e somiglianze si intrecciano come nella rete di filo di lana con la quale ci siamo uniti nel gioco iniziale in cui ciascuno si è presentato. Succede anche che alcune attività non si svolgano esattamente come le educatrici abbiano previsto, perché i partecipanti interpretano la consegna in modo diverso, in parte forse per via del fattore linguistico.

Eppure ne escono restituzioni intense ed emozionanti, ci dicono addirittura che sarebbe bellissimo se tornassimo per incontrarci non solo con loro ma anche con gli studenti.

Una famosa citazione attribuita ad Albert Einstein recita così “La mente è come un paracadute, funzione solo se si apre”. Aprire la mente è mettersi in discussione prima di giudicare, comprendere anche ciò che non riusciamo ad approvare (il ritardo!), consolidare la propria identità rispettando quella dell’altro.

(Musica di sottofondo: Isto é Angola, Helvio)

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