Scritto da Erica Cavallin

Mercoledì 20 luglio, Frecciarossa

Dopo 2 anni di racconti, di meraviglie, di formazioni a distanza dentro un piccolo schermo in cui urlare e commuoversi e immaginarsi, parto per il mio viaggio senza frontiere.

Finalmente prendiamo le nostre vere ossa e i nostri veri piedi, raccogliamo i nostri veri pensieri e andiamo: a me e alle mie compagne ci aspetta l’Elba, e non vedo l’ora di avere i piedi sporchi di terra, di sentire l’aria salmastra del mare e di sedermi sull’anfiteatro di legno della Mammoletta incontrando nuovi volti e nuove storie.

Mi aspettano 6 ore di treno per arrivare al porto di Piombino, in Toscana, 6 ore in cui attraverso l’Italia. E qui, confinata al mio posto assegnato senza possibilità di allungare le gambe, diretta verso cose sconosciute, inaspettatamente mi si apre uno spazio di libertà.

La mia casa diventa l’andare, l’estraneità di quello che mi circonda diventa luogo familiare. Seduta sul mio posto ho da una parte lo zainone con tutto l’essenziale (e qualcosina in più), dall’altra i paesaggi che scorrono veloci, davanti il volto di uno sconosciuto e dietro tutto il passato messo tra parentesi.

Forse è questo che salva del viaggio. Poter mettere una parentesi di fine ogni tanto, iniziare un nuovo discorso, andare a capo.

E la libertà è quella libertà degli inizi, ad un patto: non avere aspettative, non pretendere da te, dagli altri, dalle situazioni, non pretendere di sapere e fare.

Non programmare tutto. La libertà di riuscire a improvvisare, di stare in scena, di avere un perimetro e un compito e un orizzonte, con la fiducia di non essere sola, ma di poter costruire a partire da un Noi.

Martedì 26 luglio, La Mammoletta

Non scrivo più dal giorno della partenza.

Da 6 giorni sono in isolamento, isolata, distante, lontana. Questo viaggio è inaspettatamente un tuffo dentro di me, nelle profondità delle mie viscere aggrovigliate nelle lenzuola di una stanzina semibuia. Sudo e il mio corpo appiccica, i pensieri anche faticano a scollarsi, come spaghetti stracotti e mal mescolati. Un senso di stordimento e di nausea condisce il piatto.

Ogni giorno mi cambio i vestiti per ricordarmi che è un giorno nuovo; così so che quando avevo i pantaloni gialli il tampone è risultato positivo e quando avevo la maglietta della pace ho ricominciato a sentire i gusti. I giorni sembrano altrimenti tutti uguali, anzi a dire la verità non sono giorni, è un tempo senza determinazioni, tutto continuo fatto di occhi chiusi o occhi aperti, distesa sul letto o seduta nella veranda. Così all’infinito in diverse combinazioni. Guardo alternatamente il cielo o il soffitto sopra di me e tutto è sottosopra, il fuori diventa dentro o il dentro fuori.

Mi salvano gli usignoli sugli alberi, le formiche in fila dal mio alluce fino al buco sul tronco, la brezza che fa suonare le foglie secche, il contatto dei miei piedi nudi sul legno della veranda.

Mi salvano soprattutto i miei compagni di viaggio che mi portano la colazione o la cena, li vedo sbucare da dietro la siepe, in file o in coppie o soli con vassoi carichi di cibo che divoro in velocità, senza parsimonia e senza gusto, come un prigioniero affamato in cella.

Mi salvano ancora di più quelli che mi regalano parole, racconti, sguardi… quelli che si fermano due secondi o venti minuti per aprirmi scorci sul mondo laggiù oltre la siepe, poco importa se per lamentarsi dei turni in cucina, per raccontarmi dei tuffi al mare o per spifferarmi delle conversazioni a cena. Salvatori quelli che mi aprono un pezzettino del loro mondo, e io li ascolterei per ore, assetata e avida.

Il mondo quassù è strano, si nutre di lentezza e di solitudini, affamato di vita e di racconti, attende.

Dov’è andato il viaggio promesso? La libertà appena assaporata? Attendevo emozioni, fatica, scoperte, sudore, risate, storie, piedi, canti, tuffi. E tutto ciò accade, lo vedo accadere nella strada davanti alla mia stanzetta, lo intuisco accadere in alto nell’anfiteatro, ma non posso farne parte. 

Tutti sono molto gentili con me, ma non posso scegliere nulla. Ho portato con me solo un libro che non ho voglia di leggere. Non posso andarmene a casa e non posso vivere quello che c’è qui. Qui è tutto sconosciuto, tutti sono sconosciuti per me, che ci faccio qui?

Perché proprio ora, a che mi serve questa esperienza? Sperimento forse per la prima volta questa posizione di non avere nessun potere su quello che mi accade e che mi circonda se non quello interiore di decidere come starci.

Il mondo quassù però non è immobile. Dalla mia veranda in mezzo al bosco vedo solo la stradina che porta alla casine giù e poi, in lontananza, al mare. Ma nel percorrere questa stradina, chi i primi giorni non si salutava ora cammina a braccetto, chi guardava per terra ora alza il mento al cielo, chi taceva ora ride.

Il mondo quassù è strano, verrebbe voglia di scapparci, ma a guardar bene tra la siepe e la stradina, qualche frutto prezioso lo si trova.

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