di Marta Sassi
13 aprile 2020
Oggi, un anno fa, tornavo a casa dopo tre incredibili mesi trascorsi in una terra non poi così lontana da qui, ma lontana dalla mente di molti, dimenticata e non raccontata. Si chiama Palestina.
Si dice che chi ci resta in Palestina un giorno scrive un libro, chi un mese un capitolo, chi un anno una pagina.
Avrei voluto raccontare mille cose al mio ritorno, tradurre in parole gli sguardi incontrati, le storie ascoltate con rispetto, ammirazione ed incredulità. Far conoscere piccoli pezzi di una realtà diversa da quella a cui siamo abituati, fatta di mille colori, odori, suoni, tradizioni tanto affascinanti quanto incomprensibili. Avrei voluto far vedere a chi mi sta vicino i panorami mozzafiato che ho avuto la possibilità di ammirare, il silenzio che ho respirato nel deserto e nella campagna più aperta che io abbia mai visto, la libertà ritrovata nello sguardo di chi, pur non parlando la mia lingua, ha saputo mostrarmi con semplicità la forza del vivere nonostante e che cosa vuol dire appartenere visceralmente ad una terra, a casa tua.
Avrei voluto anche trovare le parole per raccontare le libertà negate e quell’alto muro che divide non solo una terra ma anche famiglie e affetti, che rende la vita impossibile e non dà spazio a sogni e desideri. Avrei voluto dare voce a tutte le storie che mi hanno confidato implorandomi di raccontare per avere una voce, per non restare invisibili e dimenticati. Ma non sono riuscita a farlo. Ho avuto paura o forse non era ancora arrivato il momento giusto.
In questo tempo lento e tutto uguale, in cui tutti siamo confinati nelle nostre case per proteggerci da un nemico invisibile che si aggira là fuori, abbiamo finalmente tempo per guardarci dentro, come forse non avevamo mai fatto o non facevamo da tempo.
Non possiamo uscire, e se lo facciamo per necessità cerchiamo di stare il più attenti possibile agli altri, a non avere contatti con loro, a proteggerci il più possibile. Mettendo il naso fuori da casa forse ci sentiamo in pericolo e fuori da quella che è diventata ora la nostra “zona di confort” che tanto ci sta stretta ma senza la quale abbiamo l’impressione di non essere più al sicuro. Corriamo il rischio di vivere nella paura e nella tristezza della solitudine.
Io, in questo tempo sospeso e pieno di silenzi ho riaperto un po’ di cassetti e scatole, ci ho guardato dentro e ho spolverato pensieri che lasciavo indietro da tempo, ho incorniciato immagini bellissime che ora non sono più solo scolpite nella mia mente. Se non posso andare fuori, allora provo a stare dentro. E scavo, scavo, fino a quando non mi fanno male le mani.
Arrivo fino a quella terra lontana, dove l’insicurezza e la precarietà che noi stiamo assaggiando in questi lunghi giorni sono all’ordine del giorno: donne, uomini e bambini non sono confinati nelle mura della propria casa ma dentro quelle che separano una terra rivendicata da due popoli ed il resto del mondo. Non solamente ora, in tempo di quarantena, ma sempre. Quelle mura impediscono di viaggiare, incontrare amici, familiari, perfino sconosciuti, impediscono di vedere il mare, uscire dalla propria città senza permesso. Quelle mura limitano non solo la quotidianità della vita ma anche l’immaginazione: futuro, desiderio e possibile non sono dimensioni consentite. L’orizzonte del popolo palestinese divide ciò che è consentito da ciò che non lo è, non c’è spazio per sognare ed immaginarsi un futuro diverso, un futuro in un altro Paese, senza guerra, discriminazioni ed ingiustizie.
Un anno fa, prima di dirigerci verso l’aeroporto, io, Benni e Fra abbiamo provato a dare potere a quei desideri impossibili, ai desideri dei ragazzi con cui abbiamo lavorato per circa due mesi. Scritti su dei sassolini, li abbiamo lasciati all’ingresso della città vecchia di Gerusalemme. Chissà se un giorno si avvereranno..
Oggi, un anno dopo, il mio pensiero va a quei ragazzi e ai loro sogni. Come staranno vivendo questa situazione assurda e drammatica? Saranno al sicuro? Si sentiranno isolati più di prima?
È paradossale ma, nonostante sia passato un anno, in questo periodo mi sembra di essere ancora lì: stessa sensazione di impotenza, incertezza per quello che potrà succedere domani, voglia di ricostruire non appena ci verrà data la possibilità di farlo.
Allora spero che questo tempo in cui abbiamo dovuto mettere in pausa le nostre vite ed abituarci ad una lentezza a noi estranea non venga sprecato: sia un’occasione per guardarci dentro e godere delle piccole cose, scavare in profondità fino i nostri desideri più profondi, che forse avevamo dimenticato ma a cui potremo dare una forma quando tutto questo sarà finito. Quando questo accadrà porteremo i nostri sassolini in un posto lontano, uno di quelli in cui adesso non possiamo andare ma che sogniamo tanto, e faremo in modo che si possano avverare!
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