di Giovanni Daghetti

I cammini sono indistintamente inseparabili. Tutte le nostre partenze sono fatte per andare a scoprire qualche pezzo di noi, perché non andiamo a visitare il posto, ma andiamo a trovare una parte di noi in altri posti del mondo.
Non è il viaggio a fare il viaggiatore, è il viaggiatore a fare il viaggio.
Nessuna casa è così sicura come quella che ognuno di noi porta dentro di sé, nessuno può accedervi se però, prima, non lo ospiti.

Non posso sapere cosa succede domani, posso sapere chi ci sarà.

Per me Huambo non è stata un’esperienza, per me quel Centro è stata una casa. Un anno è passato, un anno di vissuti, da quando sono stato accolto dai ragazzi la prima volta, al nostro saluto. Quel giorno in cui ero molto emozionato, ricordo che tutti mi hanno aperto le loro braccia, e già qualcuno aveva aperto il suo cuore. Mi ricordo di D. che mi accolse con il suo spirito da lottatore e M. che gli reggeva il gioco. Loro che, per primi, mi hanno fatto sentire a casa, insieme a qualche loro “fratello” che si cercava di nascondere dietro al suo vissuto che poi, lentamente, ha messo da parte l’imbarazzo che celava dietro al suo cuore. E così, giorno dopo giorno, si costruivano le prime relazioni, si mostravano i sorrisi più belli.

Questa non è poesia, questa è la realtà. La realtà del Centro di Accoglienza Criança Feliz, la realtà dove mi sono state svelate le storie più tristi, persone senza identità e bambini persi, il cui solo pensiero era la ricerca di un amore ormai svanito. Un amore quasi soffocato dalla loro storia e dal loro passato.

La prima volta che ho sentito le storie di qualche ragazzo, faticavo a credere quanto fosse realmente crudo questo mondo, la verità che si nasconde dietro ai macigni più appuntiti. Quanto però era bello, pensare di condividere tutte le giornate con i ragazzi. Mi ricordo di S. che mostrava il suo lato più adolescente: dodici anni ma ne dimostrava qualcuno in più, furbo e intelligente, che solamente grazie alla musica si è mostrato realmente per ciò che è. Le prime volte che io e lui andavamo in Sala Musica a scuotere le nostre anime, in perfetta armonia, pur non conoscendoci, con l’ostacolo della lingua che non conoscevo, a cui ho mostrato il massimo rispetto, abbiamo suonato e cantato. Non era un semplice momento preso per conoscerci, ma lì dentro, abbiamo tolto tutti i pregiudizi che la vita può cercare di collocare nelle nostre menti. E così sarebbe stato più facile, per me, non vedere le loro sofferenze.

Da quei giorni ho compreso l’Essere Fratello o l’Essere Presenza, per poter interagire con i ragazzi. Ho sentito la voglia di riscatto che ha unito le nostre forze e che ha spinto tutti noi in un lungo cammino condiviso. Ancora mi ricordo di quando, per istinto, senza sapere la lingua, mi spingevo per il desiderio di comunicare con loro. E ogni giorno era un mattone posizionato a costruire qualcosa di follemente bello.

Passando dal progetto che mi ha portato a fare un viaggio con due educatrici che sono state amiche, a volte sorelle, a volte non le sopportavo e altre volte ancora le adoravo, ma è grazie a Educatori Senza Frontiere che ho capito quali “dogane mentali” gli essere viventi si creano pur di non accettare la diversità, quella differenza che ci distingue da ogni persona e che solo sbattendo il muso contro certe realtà non si accettano fino in fondo.

Quanto è difficile voler cambiare le mentalità? Conoscendo un’altra cultura, non si può cambiarla, ci si può inserire e agire nel loro modo di vivere cercando di renderlo solo più efficiente. Questo è il primo passo per potersi inserire in una società totalmente differente.
I ragazzi mi hanno regalato giornate adorabili, spero di aver donato loro il mio Io più autentico. Quanto è stato difficile essere in servizio di pace, con tutta la violenza che viene causata dalle persone nel mondo. Alcuni ragazzi mi chiedevano se fossi razzista e la mia risposta era “se sono qua, accanto a te, la mia risposta è la mia azione”.

Il mio cuore insieme a quello di S. e F. erano le nostre risposte, le nostre azioni, il nostro vissuto e il nostro futuro che non davano spazio alla violenza che si vede e si sente. Per molte persone, io ho sbagliato a partire, per molte altre no, ma per quanto mi riguarda, ho preso distanza da tutti i giudizi che il paese sta vivendo e solo partendo, ho potuto conoscere veramente cosa vuol dire essere straniero. Lo straniero, ha bisogno del paese e il paese non dovrebbe girare le spalle alle sue necessità.

E quest’anno, io sono stato uno straniero in Africa, ma trovando un posto accogliente, lo straniero si è trasformato in un amico per qualcuno, un fratello, o anche solo una presenza positiva che cercava di sconfiggere i pregiudizi e le discriminazioni fra le menti dei cittadini.

Condividi su: