Scritto da Federica Calligaris

Da mesi aspettavo con trepidazione questo viaggio.

L’idea di partire, al di là di essere di per sé sempre allettante, per una volta costituiva anche qualcosina di più: la sensazione che conservo da un po’ di voler aprire orizzonti nuovi alla mia conoscenza, assorbita da una quotidianità di cui non posso di certo lamentarmi, ma che sicuramente a lungo andare finisce per chiudermi al mondo facendomi credere che la mia esistenza corrisponda a tutto quel che c’è.

Ecco quindi la necessità di non fermarmi, ma di mettermi in viaggio, alla ricerca, con la curiosità di sperimentarmi e la voglia di fare qualcosa di concreto e utile per qualcuno che non sia io.

Cercherò di raccontarvi il mio viaggio sino a qui, per quanto sia difficile trovare parole che traducano le immagini che conservo negli occhi e il groviglio di emozioni che mi porto in petto.

Scrivo queste righe seduta lungo il marciapiede che costeggia le strade polverose di Huambo, ex centro industriale angolano, che ancora ne conserva le sembianze.

Dopo una lunga giornata a tratti faticosa appoggio la testa al muro, i ragazzi nonostante l’ora tarda giocano ancora a calcio nei campetti dietro il centro di accoglienza che mi ospita da poco più di una settimana. Giocano correndo energicamente, illuminati dalla luce che la luna emana fondendosi con quella dei lampioni. Urlano e ridono forte, sembrano non curarsi dei loro passi scalzi sul cemento, della manica corta nonostante il freddo, della stanchezza.

Larghi sorrisi stampati sugli occhi caratterizzano la gente di questo posto: credo che sia la cosa che più mi ha colpito, dopo il primo impatto con questa terra così diversa, provata, e contraddittoria nel viaggio in macchina sulle strade della capitale.

E’ difficile raccontare l’esperienza del viaggio, d’altronde si sa, ogni viaggio è a sé, e non dipende tanto dal posto quanto dalle relazioni che si è capaci di intrecciare, dalle sensazioni che si provano. Ecco quindi che dovendo descrivervi la mia esperienza africana, oltre a ricordare le strade perennemente trafficate, i tempi di attesa lunghissimi all’ufficio immigrazione per la registrazione del passaporto, il clima ideale di Huambo, le donne con le ceste in testa e i bambini appresso; vi vorrei raccontare l’Africa che mi ha rapita: il sorriso di Adriano tra il divertito e lo strafottente, le lezioni spassosissime di balli tradizionali tenute dai più grandi, il broncio di Jei e la dolcezza di Chanu, ma anche dei disegni di Toni, del pane zuccherato di Roda, del fuji, di un mercato caotico, e delle orazioni due volte al giorno presso la cappella che qui pare davvero la custodia di una verità assoluta tanta è la devozione e il silenzio che la gente ripone in essa. Molto altro ancora caratterizza questo pezzettino di mondo.

Le giornate qui a Huambo corrono veloci, scandite da gesti semplici e condivisi, che celano una realtà il più delle volte volte dura, ma senza darlo a vedere.

Mi sento a casa, in pace.

Avrei pensato di arrivare a tanto scalando montagne e riempiendomi la vita di un mucchio di cose, eppure inspiegabilmente sento di non aver bisogno di molto altro ora come ora.

Grazie Esf per avermi regalato l’opportunità di vivere questa esperienza così arricchente, che riserva ancora tanto, e che non mancherò di custodire gelosamente nel mio cuore facendola riaffiorare ogni qual volta sentirò di doverne trarre spunto per sentirmi un pochino più felice.

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