Scritto da Letizia Biasci

“Il viaggio è portarsi dietro solo l’essenziale, il viaggio è saper stare con se stessi”. Questa è la frase che avevo nella mente prima di partire, una frase nata durante il percorso di formazione, una frase che rappresenta questo viaggio, che adesso sta per terminare.

Arrivare qui, per la prima volta nella mia vita in Africa, spogliata da tutto ciò che mi appesantisce, da quelle rigidità che a volte bloccano le mie ruote. Un po’ impaurita, ma pronta solo per arricchirmi, per riuscire a cogliere l’enorme bellezza dei particolari, di quei dettagli che possono sembrare superficiali, ma che racchiudono significati enormi.

Sì, questa volta non avevo voglia di scappare, non è la noia della stabilità che mi ha spinto a partire, ma la mia sete di curiosità, la voglia di vivermi in un tempo diverso, lento, denso, un tempo da vivere pienamente, un tempo che volevo lasciar scorrere, senza velocizzarlo, né rallentarlo.

La valigia che sempre mi porto dietro, questa volta, quando sono partita, era quasi vuota, leggera come non lo è mai stata e adesso che sto per ripartire è tornata a riempirsi. Non delle stesse cose, già viste, riviste, pesanti. Adesso contiene piccoli oggetti che potevo scoprire solo qui, in questo luogo così diverso dalla mia quotidianità, in questo luogo dove le realtà da accettare sono tante.

Adesso dentro c’è un pallone fatto di stracci e fili, con cui i ragazzi del Cento de Acolhimento de Crianca Feliz giocano tutti i giorni e con cui li ho visti entusiasmarsi per un goal come se avessero vinto i mondiali. Ci sono delle piccole pietre con cui qua i ragazzi si inventano giochi e piccoli trucchi di magia. Ci sono pezzi di vetro, quei pezzi di vetro che ogni giorno raccogliamo insieme da terra, quei pezzi di vetro che appartengono alle finestre delle camere un po’ troppo strette per venti ragazzi. Ci sono dei tappi di latta e una palla fatta di calzini con cui ho visto le ragazzine della scuola giocare per ore nel piazzale della nostra comunità. C’è un elastico con cui Cezito mi ha insegnato a creare alcune forme. Ci sono delle matite, un po’ spezzate con cui ho fatto un disegno assieme ad Ellias, un tratto per uno, l’uno accostato all’altro. C’è il disegno di Seba, due bandiere, quella italiana e quella angolana, unite da una linea tratteggiata affiancata da alcune orme, metafora dei passi che tutti assieme abbiamo percorso per incontrarci, per far incontrare due modi di vivere molto diversi, metafora di quei legami sottili ma saldi che qui si sono creati in così poco tempo.

Poi ci ho messo un secchio, uno di quei secchi con cui i ragazzi lavano la propria casa, la macchina, il refettorio, quello stesso secchio con cui si lavano i capelli, spesso aiutandosi l’uno con l’altro. Ci ho messo la foto che mi ha mostrato Ladylson, una sua foto, ricordo di una festa importante dove Padre Sissimo lo ha scelto per rappresentare la comunità. Vorrei metterci Cuya, che mi ha chiesto di portarlo con me nel mio zaino quando tornerò in Italia. Ci ho messo una miscela caleidoscopica di tempere di colori diversi, il nostro gruppo, così variopinto ma omogeneo, formato da ingredienti diversi nei colori, ma simili nella sostanza, con la stessa voglia di fare, collaborare, condividere.

Ci ho messo alcuni fili di lana colorati, alcuni annodati, alcuni sciolti… come le mille domande che affollano la mia mente, alcune a cui una risposta l’ho trovata, altre a cui, adesso l’ho capito, una risposta non c’è… o almeno adesso non ne hanno.

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