In questi giorni di “sosta”, i nostri Educatori senza Frontiere ci racconteranno il loro viaggio, il loro attraversamento di questo tempo, per non smettere di viaggiare mai, per non chiudersi mai dentro le frontiere.

Scritto da Ludovica Pedica

“Ti ho vista aprire il cassettino,
quello del mobile in sala, quello dove tieni le carte dei regali, vecchie coccarde, spago, fili colorati.
Quello dove tieni le candele.
Ne hai presa una, l’hai accesa e hai deciso di metterla in quel bellissimo vaso vuoto.
Rassicurante quel vaso,
dalla forma morbida. È stato per mesi lì, vuoto.
Così delicatamente bello. In attesa di essere vita, anche lui.
Ora che ero quasi abituato a starmene lì sul camino, a godere del calore di qualcun altro, tra una cornice vestita di ricordi e delle vecchie bottiglie di vetro, il vaso pensò.
Quel giorno, una luce così forte ha cambiato il mio colore,
le pareti della mia casa hanno assunto colori nuovi e, fa caldo qui.
Come un caminetto acceso, dalla mia casa ora esce un profumo di vaniglia, che accompagna le tue giornate, ed un tepore che ti riscalda.
Forse avevi bisogno di calore ed hai acceso me, credendo fossi io ad averne bisogno.
Quanti colori e quante nuove sfumature.
Da quasi un mese, ogni giorno ti ricordi di me e mi permetti di essere luce.”

È tempo di seminare e di raccogliere questo tempo, in fondo, così prezioso.
È tempo di cura.
Mi sono spazzolata i capelli, seduta davanti allo specchio del bagno, con una cura che non avevo mai avuto prima.
Ho cura di questo tempo e di questo spazio, nuovo.
Spazi familiari che oggi, hanno un sapore diverso.
Cura per ciò che mangio,
cura della mia casa,
della mia famiglia.
Cura della mia solitudine,
cura dei rapporti.
Cura per il mio corpo,
per i miei piedi che ogni giorno mi sostengono, “nonostante tutto”.
Cura per le mie mani, che fino ad oggi hanno accarezzato, hanno accolto e che ora scrivono, si asciugano le lacrime e accolgono se stesse ora, con amore.
Ho guardato il mio giardino e non l’ho solo calpestato per arrivare alla macchina, ma l’ho vissuto, a piedi scalzi.
Ho fatto merenda con una torta che ho preparato mentre cantavo con la musica altissima e con il grembiule che ho preso in spagna, mai indossato prima.
È un fermarsi questo,
per ripartire con “lenti nuove”.
È tempo di sbagliare, di riparare, di rendere concreti i pensieri.

Ho tempo per pensare a ciò che sarà,
ho tempo per avere paura, per stare ferma, per vivermi quegli spazi rimasti “vuoti” per molto tempo.
Ho tempo di ricordare, di coltivare piantine di basilico e amicizie “consumate” dal tempo.
Ho tempo per scrivere e per non perderlo, questo tempo.
Ho tempo per vestirlo e renderlo vivo.
È tempo per imparare ad amare l’attesa.
L’attimo prima che la carezza arrivi a sfiorarti il viso.
L’attimo in cui il piede si solleva da terra, da solo, per poi raggiungere il suolo e continuare a camminare.
L’attimo in cui si prende fiato, prima di pronunciare una parola.
È l’attimo delle parole sospese questo,
l’attimo in cui, di notte ti alzi dal letto e con la mano, cerchi l’interruttore della luce,
l’attimo in cui sbattiamo gli occhi e per quell’istante impercettibile, restiamo al buio, per poi tornare di nuovo, a vedere.

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