di Martina Babolin

Quando dici alla tua famiglia che hai deciso di partire per l’Angola per un anno ti senti dire tante cose: “farà caldo…portati via la crema…mangia adesso che puoi”. La preferita di tutti è però “stai attenta, perché l’Africa è così, l’Africa è colà”. Improvvisamente tutti sanno tutto, ma io sentivo di non sapere proprio nulla in merito a cosa e a chi avrei trovato. Una volta arrivata, questa sensazione è solo che cresciuta. Davanti a vestiti più colorati, case impolverate, modi di fare più calmi e mille altre differenze rispetto al mondo a cui ero abituata, ho sentito la mia mente aprirsi. Anche se ero pronta a cambiare punto di vista, non pensavo che sarebbe stato proprio come vedere tutto al contrario, vedere l’Africa non più dagli spalti, ma dal palcoscenico.

Come un aquilone che guarda la Terra e pensa che sia essa ad essere attaccata ad un filo, ho guardato indietro verso la mia vita in Italia in un modo nuovo. Non ho visto solo una differenza, uno spacco nel modo di vivere, ma anche quel filo che lega le diverse parti del Mondo.

Quel filo è il fatto che, vivendo tutti sullo stesso pianeta, le azioni che fa uno hanno degli effetti anche sull’essere umano che vive dall’altra parte della Terra. Lì, per me, quella differenza di stile di vita, di ricchezza, di sporcizia non ha più significato compassione, ma responsabilità. Responsabilità di ogni singolo essere umano a vivere pensando anche agli altri, pensando in che mare andrà a finire il suo sacchetto di plastica gettato per terra e da che mani viene estratto il petrolio della sua macchina. Quante piccole azioni si possono fare!

Le rivoluzioni poi saranno straordinarie.

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