John lo sa che andremo via e anche noi lo sappiamo: da qui comincia il viaggio, da qui parte ogni giorno, da qui emerge ogni dubbio. Il Kenya accoglie il viaggiatore dentro nuvole di polvere, lo spinge nei vicoli, lo schiaffeggia quando attraversa la strada, lo costringe a soffiarsi il naso e a controllare l’aria del sospiro di fronte al barattolo di colla tra le mani dello sconosciuto. Questa mattina gli sconosciuti sono 12, hanno nomi inglesi ed altri nomi che non riesco a conservare. Ridono nel loro perfetto semicerchio e noi qui dietro ad ascoltare, con il disagio di non capire, con il fastidio di disturbare, con la certezza di essere cosi’ fortunate da ricevere un dono tanto ingombrante quanto assoluto, qui alle otto del mattino, dopo un’ora di cammino-matatu-taxi-canticchiare e saltellare.

Le giacche dei ragazzi sono di due taglie piu’ grandi, hanno raccolto la polvere di un angolo speciale, quello che di notte diventa giaciglio, quello che non sara’una casa, ma almeno sembra una famiglia. Quell’angolo scavato nel suolo, con le bottigliette piccole e appiccicose, con la colla che si riconosce dagli occhi e fa venire male al petto e fa guarire dal freddo.

Le scarpe sono diverse, anche da un piede all’altro per alcuni, sono terra e colori alterati, sono la strada che, camminando, ti porta dalla citta’periferia, alle sette del mattino, di fronte al cancello di una strada di buche e poca gente, la gente di qui, che ha gli occhi grandi e ti dice howareyou.

Le voci sono dei sussurri che stamani raccontano come stiamo, roundmorning: il cerchio. E cosi’, all’improvviso, tutti celebrano il mattino con una risata, non sappiamo il perche’, sappiamo che andremo via, con la promessa di non dimenticare.

Gabriella Ballarini

 

 

 

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