di Chiara Farmehini

Bi-bip, bi-bip, bi-bip

Valentina lentamente apre gli occhi sentendo lo sgradevole suono della sveglia che, tutte le mattine, interrompe il suo lungo sonno senza sogni.

È quasi un anno ormai che le sue notti sono completamente buie, senza ricordi. Prima di trasferirsi nella grande città, non faceva così fatica ad alzarsi la mattina e le sue notti non rimanevano buie a lungo. Appena socchiusi gli occhi, arrivavano a farle compagnie piogge che profumavano di aghi di pino, neve al sapore di mela e cannella, panorami esotici illuminati da cieli stellati. Sognava avventure nei boschi e folletti dispettosi, oppure lunghe carovane colorate nel deserto e danzatori dalla pelle dorata al cospetto di sultane che popolavano mondi lontani. Sognava di tutto, posti reali nei quali era stata, ma anche tanti posti fantastici che da sveglia non avrebbe visto mai. Sognava.

Poi, il buio.

Qualche mese prima aveva accettato un lavoro noioso, perché finita l’università, nonostante i voti eccellenti, non era riuscita a trovare un impiego nel suo settore. All’inizio la situazione non le pesava tanto, era convinta che sarebbe stata solo un’occupazione temporanea, in attesa del lavoro giusto per lei, ma le settimane passavano, si trasformavano in mesi e i giorni, che trascorrevano tutti nello stesso identico modo, fagocitavano lentamente le sue speranze. Dopo ogni lunga e noiosa giornata, passata tra telefonate infinite e clienti insoddisfatti che le vomitavano addosso le frustrazioni di una vita trascorsa ad inseguire promesse irrealizzabili, l’ultima cosa che si ritrovava a fare la sera, era puntare la sveglia per la mattina dopo, perché sapeva che senza non sarebbe riuscita ad alzarsi. Le mancava la motivazione per farlo.

Pian piano, senza che lei se ne rendesse conto, i suoi sogni si tinsero di toni pastello molto chiari, poi arrivò il bianco e nero e, infine, il buio. Valentina aveva smesso di sognare.

20 dicembre, ore 7 

Valentina si alza dal letto, si trascina in bagno. In cucina si prepara un caffè che ormai beve senza zucchero, non lo macchia neanche più con il dolce latte di mandorla che tanto le piaceva. Si veste, si infila gli stivali neri e il morbido cappotto grigio ed esce di casa. In una spinta ecologista aveva rinunciato alla sua macchina, pensava che dare il suo contributo per cercare di salvare il pianeta potesse ancora avere un senso. Quindi in quell’ufficio ci andava tutti i giorni in bici, anche se l’inverno non era affatto mite nella grande città. In realtà neanche il freddo sembrava ormai preoccuparla più di tanto. Sapeva che doveva stare un po’ più attenta lungo il tragitto, perché a volte le strade ghiacciavano durante la notte. Quel mattino in effetti la strada sembrava essere più scivolosa del solito. 

Il semaforo diventa arancione, Valentina inizia a frenare, lo sa che non riuscirà a passare. Il furbo di turno sul macchinone nero, invece accelera, vuole passare. La macchina nera scivola sulla piccola lastra di ghiaccio che si è formata lungo il binario del tram, sbanda verso destra, il conducente prova a sterzare, ma la strada è troppo ghiacciata e Valentina è troppo vicina.

BLACKOUT.

Valentina giace sulla carreggiata, ha perso i sensi. Intorno a lei c’è molto rumore, gli automobilisti impazienti suonano i clacson, i pedoni attoniti si affollano intorno a lei pregando che l’ambulanza arrivi presto a soccorrere la ragazza della bicicletta. Nonostante il trambusto, Valentina rimane a terra, non si sveglia.

Accanto al suv c’è un uomo in giacca e cravatta che urla al telefono contro la sua segretaria, dicendole che farà tardi al meeting per l’approvazione del bilancio della società per la quale lavora. Impreca contro i ciclisti, che non dovrebbero stare in mezzo alla dannata strada. Impreca contro Dio, perché non ha il coraggio di guardare in faccia quella giovane donna con gli stivali neri e il cappotto grigio che giace a terra, per colpa sua.

Quando arrivano i soccorsi, Valentina è già entrata in coma. Ha le guance arrossate per il freddo, ma stranamente sembra avere un’espressione serena in viso, delicata. Valentina sta sognando.

Cammina per le vie di una città sconosciuta. C’è un tepore primaverile nell’aria. Il vento le solletica le dita. Lungo quella che sembra essere la strada principale, si susseguono case colorate e dalle forme strane. Valentina si avvicina ad una buffa casa azzurra a forma di pesce. L’esterno è un tripudio di piccoli vetri colorati che brillano al sole. Sotto la pinna laterale si trova un portoncino tondo, viola e verde, sul quale è appeso un cartello che recita “SP di Erica e Ginevra”. Che cartello strano, pensa tra sé e sé.

Continua a camminare e, un passo dopo l’altro, continua ad osservare le case bizzarre che si palesano difronte a lei. Attraversa la strada e si avvicina al cancello di una casa a forma di fungo. “SP di Teresa”, recita il cartello. Questa casa profuma di funghi e sottobosco. Poco più in là, c’è una casa che sembra proprio un panettone. Profuma di uvetta e canditi all’arancia. “SP di Gianluca”.

Valentina non capisce. “Ma che razza di posto è questo!?”.

In fondo alla strada scorge una casa piccina che attira la sua attenzione. Nessuna forma particolarmente inusuale questa volta. Ha il tetto ricoperto di edera e il portone rosso ciliegia. Ci sono dei bellissimi fiori adagiati sui davanzali delle finestre: sono fiordalisi blu e margherite rosa, proprio i suoi fiori preferiti.  A differenza delle altre case, questa ha il portone socchiuso. Il cartello è scritto con caratteri in grassetto e recita “SP di Valentina, entrata libera”. Valentina sbircia dentro. Dopo qualche attimo di esitazione, entra. 

La casa è pervasa da un profumo dolce a lei familiare. Sembra proprio cocco e cioccolata, come la torta che la sua cara nonna Lilli le preparava sempre quando era giù di morale. Non si sa come, sua nonna capiva sempre quando qualcosa non andava. Le bastava uno sguardo. Era una donna di poche parole, ma con un animo gentile e un cuore davvero grande.

Presa dal dolce ricordo di sua nonna, Valentina si dirige verso la cucina, pensando di trovarci davvero una bella fetta di torta ancora calda. Vicino all’entrata, invece, appoggiato su una poltroncina, trova Briciola, il grosso cane di peluche che le aveva tenuto compagnia per tante notti da piccina. Lo teneva sempre sul letto, così stretto a sé, che il più delle volte riusciva a portarlo con sé nelle mille avventure che sognava la notte. Cosa ci faceva lì in quella casa? Valentina è ancora più confusa di prima.

Lasciandosi Briciola alle spalle, inizia a percorrere un lungo corridoio costellato di porte. Le porte sono tutte diverse: alcune sono verniciate, altre sono ricoperte di stoffe ruvide; alcune hanno il legno intarsiato, altre hanno labirinti dipinti a mano; poi ci sono porte a righe, a pois, addirittura una con gli astri del cielo disegnati sopra. Valentina desidera scoprire cosa si celi dietro quelle porte, ma non ha il coraggio di aprirle. Forse farebbe meglio ad andarsene via da lì. Forse se avesse preso il fidato Briciola con sé, avrebbe auto meno paura.

Don, don, don, don… 

l’orologio a pendolo che si trova in fondo al corridoio buio fa tremare la casa. “Diamine!”, pensa Valentina tra sé e sé, “io entro”. Sceglie una porta gialla con il pomello dorato e, trattenendo il respiro, attraversa la soglia. 

Viene accecata da una forte luce, per qualche istante non vede più niente. Fa decisamente caldo in quella stanza. Sul pavimento c’è qualcosa di strano, sembra quasi sabbia. Quando ricomincia a distingue le forme, non riesce a credere ai suoi occhi: difronte a sé ha il deserto infinito e le colorate carovane beduine che tante volte aveva visto in sogno. Sulla punta della lingua non ci sono parole.

Scorge una grande tenda bianca poco più avanti, si avvicina calpestando la sabbia bollente. Sposta il telo che nasconde l’entrata e, chinandosi leggermente, entra nella tenda. Dentro ci sono una decina di persone sedute in cerchio, intente a parlare. Un uomo con un turbante azzurro e occhi chiari dipinti di nero, la vede e improvvisamente si alza in piedi e grida “Eccola! È arrivata!”. Con uno sguardo entusiasta, anche tutti gli altri si alzano in piedi e immediatamente iniziano ad intonare un canto armonioso e delicato. Valentina non ne capisce le parole, ma i suoni arrivano a lei come dolci carezze, si sente accolta. Forse è un canto di benvenuto per lei.

L’uomo con il turbante azzurro si avvicina a lei, prende le mani di Valentina tra le sue e con una voce calda, ma graffiante, le dice: “Per tante lune siamo rimasti qui ad aspettarti. Temevamo che ti fossi persa. In cuor mio, sapevo che ci avresti ritrovati”.

Valentina continua a non capire cosa le stia succedendo, ma lo stupore che sente le sussurra qualcosa di reale. La sensazione che prova è quella che si vive quando un profumo all’improvviso risveglia dentro un dolce ricordo, ma quel ricordo ancora non si riesce a metterlo a fuoco.

È passato solo un istante, eppure fuori dalla tenda sta tramontando il sole. Viene acceso un falò sotto le stelle e una donna bellissima, con un velo bianco in testa, porge a Valentina una tazza di tè caldo. La luna piena illumina i loro visi e, mentre nel silenzio sorseggiano insieme il tè del deserto, Valentina desidera che quel momento possa non finire mai.

Un rumore improvviso interrompe quell’attimo di pace. 

Don, don, don, don, don… 

La terra trema. 

“A presto”, le dice l’uomo con il turbante azzurro e gli occhi chiari dipinti di nero. “Adesso sai dove trovarci, quando vorrai tornare”.

Valentina si ritrova seduta sul pavimento di legno di una piccola stanza semibuia. Ci sono delle candele accese ad indicarle l’uscita.

È di nuovo nel lungo corridoio. Apre la porta ricoperta di aghi di pino. 

Dentro fa freddo, per terra c’è un metro di neve. Difronte a lei c’è una baita con il camino acceso. Entra dentro la baita e si avvicina subito al fuoco per scaldarsi le mani. Il crepitio delle fiamme le ricorda le storie di fate e folletti che suo padre le leggeva sempre prima di andare a dormire, quando riuscivano ad andare in montagna durante le vacanze di Natale. Adorava quelle storie, perché spesso si trovava a riviverle nei suoi sogni, durante le fredde e lunghe notti d’inverno.

Esce dalla stanza-baita, entra nella stanza con la porta ricoperta di velluto blu. 

Dentro c’è un vascello che solca i mari del sud. La brezza marina solletica i suoi sensi. L’odore della salsedine riempie i suoi polmoni. Si ferma ad ammirare le onde. Ha la sensazione di conoscerle, quelle onde. Indietreggia, si appoggia all’albero maestro. Poi, lentamente si lascia scivolare a terra. Le lacrime iniziano a rigare il suo viso. Finalmente ha capito. Ha capito tutto. “SP di Valentina”, recitava il cartello che si trovava sul portone rosso di quella piccola casa che si trovava in fondo alla via. SP. Sogni Perduti di Valentina.

Quella era la città dei sogni perduti delle anime che avevano perso le speranze. Tanti anni prima sua madre gliene aveva parlato, l’aveva messa in guardia, ma lei si era fatta una sonora risata, non credeva davvero potesse capitare anche a una come lei, una folle sognatrice incallita. Eppure, era successo. Come era finita laggiù? Cosa poteva fare per tornare a casa? Come poteva recuperare i suoi sogni e riportare la gioia nel suo cuore? 

Don, don, DON, DON, DON 

I rintocchi dell’orologio a pendolo si fanno assordanti, il veliero sparisce, la casa con il tetto ricoperto d’edera sparisce, le strade della città dei sogni perduti sprofondano nelle viscere della terra. Valentina, nel suo letto d’ospedale, apre gli occhi.

Sono le 7 del mattino del 21 dicembre 2022. Valentina spalanca gli occhi. Ricorda tutto. Ha capito. 

Alzati Valentina. Riprendi in mano la tua vita, con tutti i tuoi sogni.

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