Quest’anno la nostra formazione si intitola “Diari di educazione itinerante” e così vogliamo portarvi per mano nei nostri diari.
L’archivio storico di Educatori senza frontiere è stato scoperchiato e trascritto da Simona Di Gallo e Veronica Pizzi. Sarà un anno tra passato e futuro, nel presente comporremo il nostro nuovo quaderno, per scrivere le nuove pagine della storia di ESF.

Diario di viaggio Bolivia 2017

di Elisa Guidotti 

Ho bisogno di silenzio, oggi. A quest’ora prima di cena. Adesso.

Ho bisogno di mettere in ordine alcune cose.

Di fare un po’ pace con quello che ho visto e provato oggi.

Stamattina, in hogar. Otto bimbi, canzoni, colori, parole mischiate.
Una casa, “disegna la tua casa” e si trasforma tutto in un colore. E tanti punti di domanda per qualcuno.

Come si fa a chiedere aiuto?
Facciamo un patto, io ti dico che mi impegno a comportarmi meglio, ma tu mi prometti che mi aiuti a farmi capire dove sto sbagliando? Così, forse, pian piano, la smetto di strappare fogli, quaderni e rompere tutto.

Oggi pomeriggio, in carcere. Palmasola.

Forse sì, arrivo carica di racconti fatti da altri.
Vedrai, sono organizzati in questo modo e fanno questo. I poliziotti ci sono, ma sono corrotti.

I bambini? Vivono lì con i loro genitori. La legge dice che non possono.

Arriviamo, aspettiamo dieci minuti prima di entrare. Fuori c’è una fila lunga di donne che aspettano il loro turno. Hanno borse cariche di cose. Non si vedono ma sono tante. “Cose”.

Passiamo davanti a loro, con la signora che ci accompagna.

Passiamo anche i controlli, con un signore, un poliziotto che ci mette un timbro sul braccio. Sul braccio destro perché sul braccio sinistro non si può.
Penso che, ecco, siamo entrate ma non c’è nessuno. O meglio, ci sono un paio di persone che stanno percorrendo il vialetto come noi. Ci superano per arrivare prima. Ma arrivare dove?

Dopo la curva, sulla sinistra, altro filo spinato. Altre poliziotte che controllano. Dietro le reti ci sono casette, negozi, alberi.

È il settore delle donne.

Noi continuiamo per la stradina. Passiamo una grande cucina, un altro capannone e un prato con i cavalli al pascolo. Cavalli, al pascolo. In un carcere.

Davanti a noi adesso c’è un muro alto, con altro filo spinato, altri poliziotti.

Consegniamo il passaporto, un altro timbro. Sul braccio destro, adesso ho imparato.

Entriamo un’altra volta. Davanti a me una città, una città nella città. Vie, negozietti, venditori ambulanti, case con scale a chiocciola, un ospedale. Ristoranti. Riesco solo a pensare quanto sia assurdo quel posto.

Tra i mille volti che incontro cerco parole per mettere in ordine tutto.

Non le trovo.

Cerco di respirare profondamente, ma non riesco.

È assurdo.

Siamo nel settore degli uomini ma ci sono anche donne e bambini.

“Se vuoi- mi dicono-puoi fermarti per quanto vuoi. Le mogli vivono qui con mariti e figli.”

Com’è possibile?

Una città nella città, dove c’è un campo da calcio. Questo lo sento vivo. Spettatori, passanti. Sembra una festa. Colori.
Devo stare attenta a non perdermi, mi distraggo e per fortuna una mano sulla spalla mi riporta nel mio gruppo, che è diventato un posto sicuro.

Sette italiani più uno, una boliviana e un colombiano.

Assurdo, ma forse neanche così tanto poi.

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