Di Carla Maria Clelia Gallo 

Ci sono viaggi che non scegli e che durano anni e anni, e poi ci sono quei viaggi che scegli con consapevolezza e che, pur durando solo cinque giorni, restano per la vita.

Il mio viaggio all’Elba è stato proprio questo: un viaggio di cinque giorni immerso nella vita, che resta per la vita.
“Vita” è infatti la parola che porto con me nel mio bagaglio dopo quest’esperienza e “viva” è l’aggettivo che mi ha accompagnato durante ogni secondo del campus.
Ebbene sì, mi sentivo viva.
Dopo due anni di restrizioni e di distanze, in cui il mondo era avvolto da un buio mortifero, ho ritrovato la luce e quella vita che mi serviva per corroborare le esauste forze.

Avevo già fatto esperienza alla comunità la Mammoletta due anni fa e, seppur fosse stato un campus intenso e formativo, non avevo provato allora così tanta vita.

Si sa, siamo strani noi esseri umani: è solo quando ci viene strappato via qualcosa, che impariamo a darle valore.

Dopo la pioggia, si dà valore al sole. Dopo il dolore, si apprezza l’allegria. Dopo essere stati schiacciati dal peso della responsabilità, si comprende la leggerezza, e solo dopo lo struggimento per la morte ci si avvicina all’entusiasmo di sentirsi vivi. Dopo quasi due anni, solo lì, in comunità, ho finalmente capito: il tempo della pandemia mi aveva tolto molto, ma mi aveva donato altrettanto.
Mi aveva donato l’amplificazione del sentire. Tutto echeggiava in me come esplosioni di emozioni troppo intense da poter essere contenute in un corpo.

Gli sguardi dei ragazzi, i loro sorrisi e le loro lacrime, le loro acrobazie equilibrate e le loro cadute inaspettate: tutto risuonava in me con una tale intensità da domandarmi se prima di allora i miei sensi avessero avuto un qualche difetto di fabbrica.

Durante i giorni del campus, io e miei compagni di viaggio ritornavamo alla tenda distrutti.
Gli adolescenti sono capaci di risucchiare ogni briciola di energia di un educatore e, se gli adolescenti sono in stato di disagio e gli educatori portano il circo in comunità, alla sera non restano neppure le briciole.
Eppure ogni notte, nella tenda, il mio corpo era esausto ma la mente sentiva il bisogno di continuare le sue acrobazie. Aveva bisogno di afferrare e decifrare le troppe ed intense emozioni e riflessioni vissute durante il giorno.

E così, mi allontanavo dagli altri educatori e ricercavo un luogo che potesse dar voce al fruscio del mio silenzio. Poco distante dalla tenda, c’era una sedia: il luogo perfetto come temporanea casa dei pensieri e delle emozioni. Su quella sedia, sotto il cielo stellato elbano, ho fatto i viaggi più belli.

La penultima notte ero lì, come ogni notte, a percorrere sentieri di riflessione e di sentimento, quando d’un tratto ho visto una stella. Era così grande e luminosa da sembrare quasi a un passo da me.
In quella stella c’era lui: A.

Quando lo conobbi due anni fa, A. mi aveva colpito. La sua determinazione, impastata in un modo solo suo con la sensibilità e l’ironia, mi avevano ricordato un utente del mio passato che avevo molto a cuore. Allora A. stava ancora facendo i conti con i suoi demoni e, un giorno, mi vomitò addosso parole che avevano l’odore del sangue rappreso.
Quelle parole però cambiarono odore quando lui ed altri utenti portarono noi educatori sulla barca a vela della comunità.

Quel giorno, su quella barca, gli occhi di A. non nascondevano una celata venatura di rabbia e di dolore come al solito, ma trapelavano una strana luce.
Ricordo come fosse ieri quel giorno.
Mentre i ragazzi e gli educatori facevano il bagno, A. sistemava la vela e mi spiegava di quanta cura e saggezza necessitasse una barca. D’un tratto A. guardò il mare. Uno sguardo profondo, intenso, innamorato si appoggiava sulle onde. Poi diresse il suo sguardo su di me e, rivolgendolo nuovamente al blu del mare, mi disse: “E’ grazie a lui se sono vivo”.
L’ultima sera, sulla mia sedia- casa, ho rivisto la luce degli occhi di A. in quella stella.

La luce che i suoi occhi emanavano a cena mentre mi raccontava della fine del suo percorso e del suo nuovo lavoro è uguale alla luce del suo sguardo di due anni fa che si confondeva con la spuma delle onde. Quella luce la porto dentro di me.
Tutte le volte in cui mi sentirò impotente.
Tutte le volte in cui vedrò nove vite perdersi e solo una salvarsi.
Tutte le volte in cui sentirò di non aver fatto abbastanza.
Tutte le volte in cui sentirò che non abbiamo fatto abbastanza come società per proteggere e per curare.
Tutte le volte in cui lo sconforto e la frustrazione verranno a bussare alla porta di questo gracile cuore educante, mi basterà guardare questa luce.

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