di Lara Frassine

Mi ritrovo a scrivere su questo diario da cui tutto è iniziato, era il primo semestre del primo anno di università, corso di filosofia dell’educazione con la professoressa Mancino. Ci chiede di tenere un diario sul quale svolgere alcune attività: la storia dei miei capelli, scrivere dello stupore di qualcosa di abitudinario, annotare parole che volano nell’aria. Un giorno a lezione viene una ragazza con un filo colorato e ci parla di un’associazione che si chiama “ Educatori senza frontiere” e così tutto ebbe inizio. Mi ritrovo qui in Bolivia a scrivere su quello stesso diario ricoperto con un pezzo di stoffa malgascia. Ormai è passato più della metà del nostro viaggio e quasi magicamente rivedo quel filo rosso che mi aveva colpito tre anni fa. Sono qui e ritrovo quella sorpresa iniziale che prima ti destabilizza e poi diventa linfa vitale, che ti permette di tenere gli occhi costantemente aperti e pronti a non perderti nessun dettaglio. Come quando i ragazzi di Fortaleza un po’ di nascosto ballano plug and play appena ti giri ma tu, con la coda degli occhi, continui a guardarli. Oppure quando sotto voce ti raccontano che nello scrivere il loro nome hanno disegnato una rosa perché è il fiore preferito dai loro genitori o che hanno utilizzato il verde poiché è il colore che gli ricorda il loro paese e la loro famiglia.

Ritrovo nei loro disegni alcuni dettagli di quelli dei ragazzi in Madagascar e negli occhi dei bimbi dell’ Hogar de la esperanza la stessa felicità dei ragazzi speciali che ci hanno accompagnato lungo il nostro cammino a Civita. Scopro, ritrovo e mi sorprendo in continuazione, a volte mi sembra di non poter contenere tutta questa bellezza, “è troppo per me”, penso. Poi sto con le mie compagne di viaggio: Giulia, Elisa, Chiara, Flavia e tutto torna a prendere senso, a riacquisire quella leggerezza naturale. Come quando ci riuniamo nella lavanderia e passiamo un’ora a lavare e parlare.

Qualche giorno fa a Fortaleza ci siamo regalati alcune parole, io ho ricevuto in dono la parola “Umildad”, era chiusa come una pergamena con un piccolo filo arancione che ora tengo sul braccio. Osservo il modo in cui è scritta, i suoi dettagli, i colori ed è tutto magico. Appena leggo la mia parola mi ritorna alla mente la chiacchierata con un ragazzo che mi racconta di quanto gli piaccia l’umiltà del suo paese e delle persone che ci vivono e io rimango sbalordita, in una sola parola era riuscito a racchiudere così tanta bellezza, una bellezza che tocco ogni giorno con mano.

Non so se quella parola l’abbia scritta proprio lui ma mi piace pensare che in qualche modo sia la continuazione di quella chiacchierata, mi piace pensare che ci sia un filo che unisce quel momento con la mia nuova parola “Umildad”. Come quando Frank con tutta l’umiltà che aveva nel cuore mi dice che nel suo scrigno segreto, ha riposto la parola “Familia” perché ora che è in carcere senza vederli si sta accorgendo di quanto gli manchi.

Sono qui seduta sul tavolo della nostra casetta per provare a tirare le somme di tutto questo e non posso fare altro che pensare a ieri pomeriggio. Eravamo a Fortaleza, seduti sul tavolino sotto l’albero con i fiori rosa che cadono in continuazione e nel muovere lo sguardo mi accorgo di Zaccaria, solo come al solito; anche lui mi guarda, subito mi salta all’occhio un piccolo pupazzetto di lana che aveva al collo, allora vado verso di lui e gli faccio i miei complimenti, gli dico che è un pupazzo veramente bello. Lui sorride, mi guarda dritto negli occhi e mi dice che quello è un pinguino e che l’ha fatto con le proprie mani per la sua mamma e lo tiene al collo perché ha paura di perderlo. Lo tiene al collo con un filo di lana verde, lo lega in modo semplice ma sicuro. Rimango affascinata e gli chiedo se posso scattare una foto alla sua creazione, lui è super orgoglioso e sorride. Inizia a raccontarmi della sua mamma: ci sediamo per parlare un po’ insieme. Qualche minuto dopo prende un foglio dal mio quaderno e inizia a fare un disegno: prima il prato, fitto fitto, poi un fiore essenziale e semplice, un albero grande e folto, una casa con la sua porticina e una finestra grande nel mezzo. Si ferma per un attimo, potrebbe sembrare che non abbia più nulla in serbo e invece inizia a scrivere: “Familia unida en hogar hasta el final”. Leggo e mi commuovo per tutta quella bellezza che mi sta donando. Potrebbe sembrare una frase qualunque ma non è così, io quella stessa frase ce l’ho tatuata sul braccio da quattro anni: “fino alla fine”, e per me ha proprio quello stesso significato. Non penso di avere le parole per descrivere quanto provato in quel momento. Mi sono sentita estremamente vicina a lui, a lui che sta sempre isolato da tutto e tutti e che passo dopo passo ha iniziato a fidarsi di me. Fino a qualche settimana fa non ci conoscevamo nemmeno , uno in Bolivia e l’altra in Italia : un oceano in mezzo, due lingue differenti e storie di vita diverse. Così lontani ed ora, grazie ad un semplice disegno fatto con una matita mezza rotta, siamo sorprendentemente vicini. E’ una vicinanza che non si può spiegare, è quella che ti stringe il cuore, te lo scuote e lo fa battere così forte che ti sembra possa esplodere. Io e lui vicini, a parlare del suo filo verde e di quanto siamo simili.

Ritrovo costantemente quei fili colorati: rosso, arancione e verde. Vedo che creano nuovi legami e ne ricuciono di vecchi, vedo che guariscono ferite ma soprattutto vedo che mi sorprendono ogni istante. Mi sorprende la bellezza delle persone incontrate e ritrovate, dei dettagli osservati, dei segreti detti alle orecchie e dei passi di ballo fatti di nascosto. Mi sorprendono le mie compagne di viaggio: il sorriso contagioso di Giulia, la tenacia di Elisa, la capacità di ascoltare di Chiara e la freschezza stravagante di Flavia.
Torno a casa con lo zaino pieno di fili colorati che portano con sé bellezza, coraggio, sorrisi e tanto, tanto altro e per tutto questo non posso fare altro che dire GRAZIE.

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