di Gaia Maggini

Caro Esf,
ho bisogno di parlarti di un giorno, un giorno particolare. Un giorno che ha visto 160 occhi cercare se stessi per incontrare l’altro. Un giorno che ha parlato della mia, della tua, della nostra strada; del cammino che silenziosamente facciamo quotidianamente. Ma oggi il viaggio è stato pieno di suoni. Ed è proprio in questo che si cela la sua particolarità. Tutto è iniziato con le parole di Cristina, in una storia di passi perduti e ritrovati. Ha assunto subito dopo le note che la carta, appoggiata a terra, produce.

Ognuno con il suo foglio, ognuno con il suo pezzetto di storia, di libro, ha iniziato a mettersi in cammino. Un cammino, per la prima volta, concreto. E, nel momento in cui gli scarponi hanno dovuto affrontare le salite della montagna, l’erba bagnata, la terra umida e il legno scivoloso, l’incontro si è fatto fatica, è divenuto sostegno, ha urlato stanchezza. Diversi erano il passo, l’andatura, la fatica ma  uguali la voglia di farcela. Di arrivare al rifugio, di sdraiarsi al sole e guardare la vallata, la strada percorsa. Importante era riuscire, poter dire a se stessi di averci provato. Durante quel lasso di tempo, la singolarità ha cessato di esistere: eravamo un corpo unico che si muoveva all’unisono. Di certo non contava arrivare per primi, aveva importanza arrivare insieme. Ad un tratto bosco, suoni di uccelli, parole appese ad un filo. Ognuno concentrato ad ascoltare l’altro per prendere parte ad una grande storia. Tutti contribuivano con una pagina, una frase, una riga: forse anche la più misera parte, senza la quale però non si sarebbe potuto andare oltre. Uno dei fogli appesi recitava: “[…]ora hai scoperto qual è il segreto dentro questo libro. È il mistero delle cose invisibili. Ti racconta piano che, un giorno che non so, proprio li, in punta di ciglia, tra le costole, ti ricorderai che hai imparato a somigliare all’aria, a farti ossa con dentro leggerezza.” Grazie a questa frase realizzo. Realizzo che siamo uno scheletro che tacitamente sorregge senza appesantire mai.

Ogni gesto è un sostegno per tutti. Forse, solo contando sulle proprie forze e aggrappandosi all’altro si arriva in vetta, ci si salva. Così fu. Il rush finale fu alleggerito dalla presenza del gruppo. Nonostante si cercasse di risparmiare fiato, tutti contribuivano con una parola, con la consapevolezza che avrebbe aiutato ad alleviare la fatica della salita.
A mezzogiorno il sole smetteva di fare il timido, qualche temerario tirava fuori gli occhiali da sole. Chi sul prato, chi sulle panchine, divorava il suo panino. Qualcuno cede quello con la porchetta consapevole che il prosciutto capitato al compagno non piace. I caffè, i giochi di magia, i dolci chiamati in mille modi diversi. Questo è lo spirito di cui mi sono nutrita.
La prima cosa che impariamo, insegnata dalla vita, è che ad ogni viaggio segue un ritorno: a volta più duro e difficile dell’andata. La discesa, infatti, è insidiosa sia per chi si lascia troppo andare, sia per chi invece è restio al ritorno. Con una figurina in mano, più titubanti che mai, ripercorriamo la strada di casa a fianco della persona con cui meno avevamo parlato. Leggiamo stupiti che l’augurio che ci ha donato è più azzeccato che mai. Raccontiamo la nostra storia; ascoltiamo la vita degli altri nella quale riusciamo sempre a trovare qualche affinità.

Nessuno è poi così distante, ognuno è fatto a modo suo, ma unito all’altro da un denominatore comune, da quel famoso filo rosso che ci fa sentire, intuire, percepire la stessa tremenda voglia di vivere. In questo ritorno, l’incontro si fa brusio, si fa schiamazzo, si fa complicità nel capire il limite dell’altro, nel comprendere, nelle poche parole la paura di concedersi, e nel turbine di lettere, la voglia di raccontarsi senza freni, senza filtri, senza essere giudicati. Così il tragitto si fa goccioline di pioggia, mantelle colorate, respiri affannati. Con le scarpe piene di passi e il cuore pieno di battiti, arriviamo a quella che per tutti ora è casa. Nei 160 occhi che avevo visto la stessa mattina ora trovavo serenità, tacita tranquillità. Quella quiete propria di chi ha dato tanto e ricevuto di più; quella che hanno le persone che credono, che hanno acquistato fiducia; negli altri, ma soprattutto in sé. Perché viaggiare dentro l’altro è come ripercorrere se stessi. Perché ci vuole il doppio della delicatezza per entrare nella vita delle persone e assaporarla, tutta, piano piano e fino in fondo. Perché forse è proprio vero: ovunque io-tu vada, che sia dall’altra parte del mondo o nello sguardo di un compagno, dobbiamo saperci muovere con cautela, “maneggiare con cura” come recitano le scritte sugli oggetti delicati. Entriamo in punta di ciglia, e con cuore di piuma e occhi di luce, impariamo a farci ossa.
Quindi caro Esf, che sono io, che sei tu, ti ho parlato di un giorno, che può essere tutti i giorni. Un giorno che è ieri, che è domani, ma, soprattutto, che è oggi, è qui, è ora.

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