di David Perfetti

La parola mela deriva dal latino “malum” e si riferisce sia al frutto del melo sia al male, forse per questo nella tradizione iconografica cristiana è stata associata al frutto del peccato, morso da Eva, fino ad arrivare a quella avvelenata della strega di Biancaneve.
Nell’antica Grecia diviene il pomo dorato della discordia, con su scritto “alla più bella”, che andò a finire tra le mani di Paride per uno scherzo di Zeus.
Guglielmo Tell la scelse come gioco di punizione verso il figlio, Newton vedendola cadere da un albero, riuscì a definire una nuova legge fisica.
Magritte la chiuse in una stanza per poi liberarla e scrivere “ce n’est pas une pomme”, Steve Jobs, la prese, le diede un morso e la lanciò come simbolo di un diverso futuro.

A me, al contrario, fa ripensare al passato, soprattutto all’infanzia e all’adolescenza.
Ho imparato tardi a sbucciare la mela, più per necessità che per volontà e tuttora, non è che sia molto bravo a farlo.
Mi piaceva farmela sbucciare, era una coccola, come una tenera cura verso me in attesa di poterla mangiare, assaporando così anche la dolcezza di quei gesti.


Ricordo che desideravo farmelo fare soprattutto da mio padre, alla fine della cena. Ero felice di rimanere lì ad osservare le sue callose mani che, con concentrazione, rimuovevano la buccia in un unico ricciolo, come quei trucioli di legno che produceva, durante il giorno, nel suo laboratorio.
Ancora adesso, quando mangio una mela, delle volte mi sembra di rivedere quei suoi occhi buoni che mi passavano gli spicchi puliti, di assaporare il suo carezzevole affetto e di gustare l’odore che sa di dolcezza misto a legno.

In questi giorni, l’albero è ormai decorato e acceso e sotto, tra nastri e carta colorata, c’è anche una mela, a ricordo di quegli attimi. Il Natale è anche questo, tornare ad essere, anche solo con dei semplici gesti, i bambini che eravamo.

Condividi su: