di Giulia Monaco

Le iridi cangianti, le pupille dilatate, ciglia che sbattono ripetutamente. L’asciugamani del mare sventola al sole assieme a una grossa tovaglia rossa. Marciapiedi, l’acqua mossa, in tempesta, il Sud, il Sud America, l’acqua cheta, lei ribolle. Le persone che corrono per riuscire a prendere il tram, i cappottini verde petrolio, i baschi. Gli scheletri di una casa lasciati in rovina. Un dondolo, il liceo e i suoi corridoi, il bar sotto casa, le pagine delle dispense universitarie, quelle dell’elenco telefonico. Il mercato di Via Termopili. I sorrisi sornioni degli sconosciuti, i sorrisi accoglienti di chi conosci. Gli intarsi nel legno, il divano morbido nel soggiorno, la postura aggraziata del ragazzo con lo chignon alto e i capelli ricci. Il mercato di Babbaurra, quello di Ballarò.

Le luci soffuse dalle finestre dei palazzi, dagli appartamenti, dalle vite degli altri. In quelle in cui ti aspetti ci sia dolore, ma poi tutto quello che trovi è solo pace, inaspettata pace. Nelle ciudades nascoste, nelle statue che chissà quante ne hanno abitate. I saloni, le stanze, i cassetti dei ricordi. Quando sbagli metro e sei in ritardo e decidi che “pace, doveva andare così”. Guanti bianchi, bastoni della vecchiaia, libri usati e tutte le cose che lasciamo nei libri usati. Una madre che a un tratto diventa bambina nel palmo della tua mano. Un padre che non sa come si fa ad amare in modo semplice, genuino. Le strofe delle poesie, versi, parole, appunti, note sul telefono, promemoria in agenda, su un quaderno, su un post-it, nella testa. Cosa sono, le città invisibili?

Via via, vieni via con me. Del sugo della domenica mattina, quello in cui inzuppi il pane caldo e croccante ancora prima di bere il caffè, mentre sei in pigiama e con i capelli arruffati ti trascini per casa provando a capire quale sarà l’obiettivo della tua giornata. Del mirto, dell’eucalipto, del basilico, della menta. Resistere de La Rappresentante di Lista, del salato delle lacrime che cadono sulle guance quando sei al suo concerto. Del profumo di una persona che sfiori lungo la strada e che ti ricorda chi ormai avevi dimenticato, anche se il suo profumo no, non lo dimentichi. Le dita che tamburellano sulla borsa, uno xilofono. ‘Na voce, ‘na chitarra e ‘o poc’ e luna, comm’è doce chesta serenata. Lo scricchiolio delle scale di casa di nonna, l’andirivieni delle onde sulla battigia, le parole che ti sforzi di non dire.

Dell’ammorbidente Lenor alla vaniglia. La radio che accendi ogni mattina, la playlist di Spotify che scegli quando esci di casa per andare al lavoro, il telegiornale alla TV in sottofondo quando torni a casa dei tuoi per le vacanze di Natale, il gruppo di sudamericani che nelle sere d’estate canta in Via Padova a orari improponibili, ma tanto alla fine è estate e va bene così. C’è un accappatoio azzurro, fuori piove un mondo freddo. Dell’odore del caffè macinato prima di metterlo nella moka. Delle zampe di un bassotto sul parquet. Di cosa odorano, cosa ascoltano, che suono hanno, le città invisibili?

Tra gli anelli, tra i maglioni infeltriti e tra quelli nuovi di pacca, tra le pieghe del cappotto che hai rubato a tua madre, “tanto poi glielo restituisco”. Nel tatuaggio all’hennè sul dorso della mano della ragazza che scende a Centrale. Nello specchio dell’ascensore quando torni a casa. Negli sguardi stralunati e sognanti di quando sei innamorato e scrivi proprio quel messaggio senza accorgerti che l’angolo sinistro della bocca è leggermente inarcato verso l’alto, senza accorgerti che stai sorridendo.

Nelle giornate di pioggia che per una volta non te la fanno prendere a male, nelle notti in cui ti diverti e quando rientri a casa pensi: “Sì, finalmente”. Nei luoghi dove non tornavi da un po’ e che ti accorgi di aver abitato in momenti improbabili della tua vita. Lungo le trecce della signora raccolte con un elastico rosso.

Nello smalto che hai messo ieri e che lavando i piatti si è già rovinato, nelle scarpe, nei comodini, per le strade, tra le righe. Nelle lacrime di quando ti senti in colpa e ci metti giorni, mesi, anni prima di redimerti da te stesso. Nei punti di riferimento, quelli che cerchi e quelli che pensavi non lo fossero e invece poi scopri che sì. In te che stai leggendo, che sei a tua volta punto di riferimento, filo rosso, racconto, città invisibile anche se non te ne rendi conto. Le città invisibili nella mia testa, nella tua.

Dove sono, le città invisibili?

Dapdadudidu cibum cibum bum.
Dapdadudidu cibum cibum bum.
Dapdadudidu.

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