Scritto da Gabriella Ballarini

Quando mi chiedono come sia viaggiare in Honduras dico sempre che è il viaggio delle sorprese e che non lo so come sia, so solo che torno e ritorno pensando che tornerò ancora e ancora ritornerò. Il viaggio poi non è solo andare, ma è andare con. Quest’anno sono qui con cinque ragazze, donne, volontarie, chiamatele come volete, cinque mondi che mi fanno scoprire questa casa ancora una volta. Guardavo Eleonora l’altro giorno e pensavo quanto la vita può sorprenderti. La guardavo ballare, ipnotizzata dal suo muoversi e andare e venire e guardare i ragazzi negli occhi, ridere e sorridere con loro, accompagnandoli con quel suo modo trasognato e meraviglioso, quel suo abbraccio da lontano che viene fuori dal suo sguardo, dal fragore delle sua risata.

Dopo la sua lezione con i ragazzi, uno di loro è arrivato da me e mi ha detto che era successo una specie di miracolo, una roba gigante, che lui non ballava, che da sobrio non aveva mosso nemmeno un passo di danza, mai. Che Eleonora aveva fatto una specie di miracolo, una cosa che lui non poteva capire, che era come se lei lo avesse “stappato”, se gli avesse tolto un peso, che a diciassette anni aveva bisogno di liberarsi, finalmente.

Alle cinque del pomeriggio qui si ferma tutto, si prepara la cena e si aspetta il calar del sole, la calma che prelude il sonno, ci si prepara a sognare, a sperare di sognare e che il sogno non sia incubo. Ci si prepara a resistere un giorno in più, a trasformare.

E poi ci sono quegli altri momenti, quando siamo attorno al tavolo, quando scherziamo, quando litighiamo, quando leggiamo il diario e stiamo tutti in silenzio, guardando un punto di fronte a noi, come a cercare un appiglio. Ci sono quei momenti lì, quando tutto sembra fermarsi attorno, quando ci mettiamo a cerchio e come se ci fosse un fuoco in mezzo, ci raccontiamo delle storie. Storie meravigliosamente tragiche. Stiamo affrontando con i ragazzi la scrittura della storia di vita, lo stiamo facendo per passi successivi e lo stiamo facendo insieme, tiriamo i fili delle nostre storie e li intrecciamo agli altri, ci prestiamo la voce a volte e altre volte la mano. Facciamo in modo che i fili formino un ricamo, a volte va bene, altre volte si intrecciano così tanto che viene fuori un pasticcio e allora ridiamo e andiamo avanti, più forti, liberi di fare un pasticcio.

Con Raul abbiamo ritagliato il tempo e lo abbiamo registrato in un cellulare, dice che le cose che conservi non possono morire, poi a quelle parole masticate daremo anche una forma scritta, quei ricami li faremo andare profondi sul foglio, magari con una penna nera e una pagina a righe, come quando si scrivono le cose importanti.

Ad ogni diario corrisponde un titolo, i diari li hanno costruiti loro, uno dei diari si intitola ODIO e il ragazzo che lo ha scritto guarda sempre nel vuoto, ha profondi occhi azzurri e una carnagione chiara che non tradisce le sue origini mesoamericane. Occhi di vetro e mani nodose. Oggi ha preso il gatto per il collo e lo ha quasi strangolato, solo per spostarlo dalla panca al pavimento. ODIO non parla, lui guarda e poi dice frasi frastagliate di parole ripetute, parole di strada che si moltiplicano in suoni e sottraggono significati. ODIO non dice, lui assiste e sospende tutto attorno a sé. ODIO odia e basta, per ora.

I pensieri di questo racconto sono sparsi e disorganizzati, come una danza e una canzone, come un’attesa o un grande amore. Così.

 

Condividi su: