“Quello che mi è piaciuto del campo scuola è che siamo rimasti bloccati nel fango e si mangiava pane tutti i giorni”.
Eccolo lì Kalvin, seduto al mio stesso tavolo in questa baracca di lamiera che per un anno sarà la sua casa, e che ora è un po’ anche la mia, con lo sguardo luminoso e la bocca ancora sporca di ugali.

Lui, che ha vissuto la strada prima di arrivare lì. Lui, che di strada ne ha percorsa molta per poter essere lì. Lui, così felice di aver gustato del pane e per aver vissuto l’avventura di rimanere impantanato con uno school bus che probabilmente aveva più anni di me, ma che con i suoi bagagli dentro sembrava fiammante.
“Quello che non mi è piaciuto del campo scuola è quando i teachers mi sgridavano”.
Lui, così diverso e così uguale ai ragazzi con cui lavoro qui a Genova: anche al di là dell’equatore la sgridata di un educatore è poco gradita.
Vengono raccolte le stoviglie e portate a lavare. I ragazzi si alzano da tavola quasi all’unisono: tutti hanno un compito da svolgere per portare avanti la casa.
In un attimo tutto è pulito e predisposto per la colazione e le attività del giorno seguente.
Io resto lì. In piedi. Immobile. In mezzo a quel turbinio di gesti consolidati che io ancora non conosco. Con l’aria di chi è a casa ma non lo è, di chi è straniero ma non lo è, di chi è parte di una storia ma ancora non lo sa.
Kalvin mi si avvicina, libera la mia mano dalla torcia per far spazio alla sua: stasera sarà lui a farmi luce e a guidarmi per quel centinaio di metri di pozze e fango che mi separano dalla camera. Facciamo la strada in silenzio fino al cancello: “Lala salama Kalvin” e un abbraccio forte.
Con la testa e le gambe ancora intrise dei suoi racconti, della stretta di mano sicura e del silenzio intenso del breve cammino fatto insieme, tra me e me canticchio:

If you know your history,

Then you would know where you coming from,

Then you wouldn’t have to ask me,

Who the heck do I think I am.

I’m just a Buffalo soldier…

Marzia Paolini

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