Scritto da Annalisa Bergantini

Ascolto la musica di questo viaggio ogni volta che posso, in questi giorni che sono già ritorno. Questa volta, questo viaggio, sento davvero di non volerlo lasciar andar via.

Allora schiaccio ‘play’, un po’ a caso, fra le tante canzoni di Gabri ascoltate in viaggio. E per un attimo rivedo la nostra stanza di Riberalta, i letti pieni di cose, i nostri vestiti ormai intrisi di terra, gli asciugamani sulle sedie ad asciugare, il sapone a seccare sul tavolino, gli accrocchi di spine elettriche bianche intersecate una con l’altra sul muro, la borsa col materiale appoggiata per terra, con i manici lasciati andare sul tessuto che sembrano sfiniti, quasi quanto lo eravamo noi dopo una giornata di formazione.

Fatico a scrivere, oggi, che ogni incontro vissuto è già sfumato in quello successivo, e in quello dopo ancora. Rivedo le bimbe e gli educatori dell’hogar, i leader giovanili, le donne del Cristo Rey e quelle di San Juan, i professori di Cobija, i centoventi ragazzi della scuola superiore, e poi gli altri novanta. I giornalisti di Radio San Miguel, le famiglie del Sena. Gli uomini della sezione maschile del carcere, e le donne intorno al tavolo della sezione femminile.

Tante storie di vita, il filo conduttore del nostro viaggio, ma forse non è di queste storie che vorrei dirvi.

Forse, vorrei dirvi di cinque donne che si sono messe in viaggio un giorno di luglio. Ognuna col proprio passato e col proprio presente sulle spalle, che hanno corso lungo tutti i corridoi di tutti gli aeroporti attraversati, da Milano a Santa Cruz.

Quattro donne che delicatamente hanno poggiato per la prima volta i piedi su una terra inaspettata, lontana dal loro vissuto e dalle sicurezze del ”già sperimentato”. E una donna a guidarle, senza però mai mettersi alla guida, capace di segnare il solco del cammino da fare, lasciando la libertà di scoprire come arrivarci.

Donne di poche smancerie, ma forti delle risate contagiose e delle mani strette proprio quando si aveva bisogno di sentirne la presa.

Conoscevo già la sensazione di un luogo nuovo che poi si trasforma in Casa, ma forse non conoscevo più quella del gruppo, del fare insieme con onestà, passione, dedizione e umanità. La sensazione dell’affidarsi e della fiducia, data e ricevuta. La sensazione di un “circulo” ogni giorno più stretto, di sguardi che si capiscono veloci, di quaderni scritti a più mani.

Forse è proprio vero che poteva essere Bolivia, Africa o l’Asia più lontana, e saremmo state comunque noi cinque, desiderose di imparare, di mischiarci, di lasciarci un segno. Di ascoltarci, di cercare il punto di vista dell’altra, per comprendere meglio la realtà che ci era davanti.

Mi sembra oggi di aver compreso meglio il senso di questo viaggiare, di questo andare per non salvare nessuno, ma per essere capaci, alla fine di un viaggio così, di sederci sul letto e iniziare a leggerci una lettera che comincia con “Cara me…”.

 

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