Scritto da Rosario Volpi

Erano una trentina le donne prigioniere nel carcere di Fianarantsoa quando sono arrivato qui la prima volta, ora sono 47, donne di tutte le età.

La struttura penitenziaria di Fianarantsoa distingue tra settore maschile, femminile e minorile. Uno dei problemi più complessi che colpisce questo carcere è il sovraffollamento. Nell’istituto penitenziario di Fianarantsoa, infatti, il numero di detenuti previsto è di 290 unità, ma ad oggi i detenuti reclusi sono più di 700 la maggior parte dei quali in attesa di giudizio.

Gli spazi ridotti, l’impossibilità di garantire pasti regolari e nutrienti per tutti, la conseguente carenza di cibo, la difficoltà di mantenere un livello igienico accettabile, con il rischio di diffusione di malattie ed epidemie e l’impossibilità di garantire cure mediche adeguate, sono alcune delle conseguenze del sovraffollamento carcerario. La convivenza diventa molto difficile quando la quantità di persone costrette a condividere la vita in così poco spazio, oltrepassa ogni accettabile limite.

Tutto questo provoca conseguenze negative sui reclusi, sia dal punto di vista fisico che psicologico, soprattutto quando vi si aggiunge il rifiuto della famiglia di origine che si sente disonorata. I legami tradizionali, fonte di sostegno e protezione si sfaldano e l’insicurezza aumenta.

I detenuti sono spesso abbandonati a loro stessi, a meno che non intervengano organizzazioni di volontariato.

L’esperienza di Educatori senza frontiere con le donne detenute, rappresenta un’ alternativa concreta all’inattività, e un’ occasione di formazione e di reinserimento sociale. Ogni mercoledì, insieme alle donne, impastiamo e cuciniamo pizze che vendiamo alle famiglie che ne fanno richiesta. Il ricavato serve in parte per finanziare l’attività stessa, in parte come salario per il lavoro delle donne. Ognuna di loro può scegliere di ricevere subito il denaro per i bisogni impellenti (come l’acquisto di cibo, medicine, sapone…) o di depositarli in una busta per utilizzarli in futuro, dopo aver riacquistato la libertà.

Le guardo e mi chiedo chissà quali sofferenze si porta dentro ognuna di loro, chissà quali storie e quali soprusi hanno dovuto subire. Chissà che paura hanno di tornare a casa povere come prima, ma con meno legami e meno accettate. Chissà quanto pregano di poter tornare libere pur non avendo nulla e non sapendo dove andare. Penso a quante donne malgasce, e forse non solo, vivono in prigione anche a casa loro, a quante non possano permettersi neanche il lusso di avere dei desideri, di fare dei progetti per se stesse e per i loro figli.

Le guardo e mi sembra che siano sempre “altrove”. La loro mente, il loro cuore e persino desideri mi sembrano altrove, perché non possono stare li tra quelle quattro mura!

C’è una finestra che dà verso l’esterno, nella sala dove lavoriamo, e spesso le vedo lì, a guardare quell’altrove a cui attaccare una speranza, la voglia di andare avanti nonostante le grandi difficoltà che vivono e che forse hanno sempre caratterizzato le loro vite.

Altrove, forse un giorno non lontano, potranno tornare a vivere!

 

 

 

 

Condividi su: