Scritto da Federica Taranto (Servizio Civile in Madagascar)

Parlare del Madagascar non è semplice. Sto vivendo l’esperienza lontana da casa più lunga e faticosa della mia vita. Ho imparato a conoscere le persone del luogo, ad avere pazienza, a rispettare i tempi e gli spazi di adolescenti che se decidono di accoglierti, di aprirti il loro cuore, lo fanno per sempre. 

Questo posto ha qualcosa di magico, un amplificatore naturale di emozioni sempre diverse. Prima ti spaventa, a volte ti colpisce, quasi sempre ti insegna qualcosa. Ti insegna ad avere autocontrollo quando è necessario, a lasciar fluire le sensazioni quando è possibile farlo, a saperti relazionare con una cultura diversa facendo della diversità un’ulteriore risorsa da sfruttare, insieme. Un viaggio pieno di difficoltà ed imprevisti. Esperienze che ti cambiano per sempre, lasciandoti un segno indelebile. Una lunga serie di istantanee che puoi rivedere in tutta la loro nitidezza se solo provi a chiudere gli occhi per un momento. Come quella di un pomeriggio apparentemente tranquillo.

Sono le sei quando ad un certo punto sentiamo bussare al cancello di Ambalakilonga. Dall’altra parte ci appare un ragazzo, probabilmente diciottenne. Ha il volto stremato, gli occhi impauriti. Chiede aiuto per H., una ragazzina anche lei di appena diciotto anni (dice, anche se dal volto e dal fisico sembrava averne non più di sedici), si è ferita allo stomaco. Quella ferita non la dimenticherò mai. Un taglio profondo allo stomaco dal quale usciva un pezzo d’interiore. Il viso della ragazzina rimane senza alcuna espressione, come se fosse estranea alla scena, senza avvertire il dolore della lacerazione sulla sua pelle. Io, C. ed A. (un ragazzo di Ambalakilonga) insieme  a R. decidiamo di portarla ad Ankofafa per farla visitare da un medico, ma quest’ultimo non c’è, è in chiesa. Non potevamo lasciarli privi di aiuto. Decidiamo di portarli in ospedale. Dopo la visita ci dicono che dobbiamo pagare 800 ariary per avere i documenti e scrivere la cartella clinica di H. Ne abbiamo solo 10 mila, ed il tipo di fronte a noi non ha il resto. Glieli lasciamo, tutti. Nel frattempo il medico prescrive la cura, premurandosi di avvertirci che, nel caso in cui non avessimo osservato le sue disposizioni, la ragazza avrebbe potuto non farcela. Si, perché qui non è come in Italia. Non esiste, ad esempio, il S.S.N., perchè se vuoi essere curato ti devi procurare le medicine altrimenti l’ospedale non  può aiutarti. Devi stare attento a non farti male perché il prezzo da pagare, a volte, è veramente alto. Puoi ritrovarti a vivere drammi inaspettati nei quali o sei fortunato o sei spacciato. 

Usciti dall’ospedale ci incamminiamo a passo spedito verso la prima farmacia lungo il tragitto. Non ci accorgiamo, però, che sono già le sette di sera. Tutto chiuso, ovviamente. Per un attimo veniamo assaliti dal panico. Dobbiamo assolutamente trovare le medicine per poterla curare H.. A. si ricorda di E., ma quest’ultima è in Italia. A quel punto chiediamo aiuto a B., la ragazza che la sostituisce. Ci dà alcune medicine, dicendoci che una farmacia di turno probabilmente c’è. Così, ci precipitiamo nel posto che ci viene indicato nella speranza di essere più fortunati. Riusciamo a trovare tutto l’occorrente ma non abbiamo abbastanza soldi per pagare. Diamo tutto quello che abbiamo in un primo momento, la restante parte l’avremmo portata il giorno dopo. 

Ritorniamo in ospedale: sono le 20.15. Il ragazzo (di cui non conosco il nome) ci aspetta all’entrata. È ancora agitato, forse pensava che non saremmo più tornati. Quando ci vede tira subito un sospiro di sollievo. Entriamo insieme, nello stesso momento in cui ci comunicano di essere arrivati troppo tardi. In quegli attimi concitati pensi al peggio. Tengo lo scatolone con le medicine quando l’infermiera mi fa cenno di entrare. Vedo H., ancora lì, per fortuna. Questa volta a tirare un sospiro di sollievo sono io. Mi vede. Sorride. La guardo in tutta la sua bellezza. È piccola, a tal punto da sentire un istinto irrefrenabile di abbracciarla, quasi a volerla proteggere da un destino troppo ingiusto per essere compreso. Le sorrido, mentre poggio le medicine ai piedi del letto.

L’infermiera ci consegna un’altra fattura dicendoci che servono altre medicine da comprare. Ma noi non abbiamo più soldi. In un attimo mi crolla il mondo addosso. Cerchiamo una soluzione, in piena modalità “McGyver”. Chiediamo alla farmacia dell’ospedale di farci credito, ma niente da fare. Più che impacciati stavolta siamo rassegnati, delusi, e anche un pò incazzati. Telefoniamo a R. per cercare un po’ di confronto o forse coraggio ma ci dice che abbiamo già fatto il possibile. Ci dice che se ne approfittano perché siamo Vasà (stranieri). Non possiamo fare più niente. In quel momento sono assalita nuovamente da mille sensazioni, e tutte sgradevoli. Mi chiedo come si possa comunicare ad una ragazzina di non poterle essere più d’aiuto in alcun modo. Leggere nei suoi occhi la disperazione mentre le comunichi che questo mondo le ha voltato le spalle una volta per tutte. Sono nel pallone. Non so come fare. 

Mi dico di essere forte, di aver fatto il possibile, e di dover completare l’opera mio malgrado. Non mi rassegno. Entriamo nuovamente per parlare con il medico di turno, ma questo si arrabbia con noi, dicendoci che è stato chiamato per operare e non può più fare niente per noi per la mancanza di soldi. Attimo di tensione, ancora una volta. Nervosismo, rabbia, stanchezza. Dopo mezz’ora fortunatamente riusciamo a capirci. Non sono dei ragazzi di Ambalakilonga, ma due giovani disperati in cerca di aiuto. Purtroppo, però, ci ribadisce ancora una volta di non poter fare più niente, almeno per quella sera. H. dovrà passare la notte in ospedale. L’indomani mattina le avrebbero fatto un’ecografia per verificare se altri organi interni fossero stati colpiti. 

Torniamo a casa, a quel punto non possiamo veramente più fare niente. Camminiamo lentamente e in silenzio, con la testa invasa di pensieri ingombranti, ed una speranza sola: che H. torni a stare meglio. 

Da quel giorno ho capito cosa significa per me “stare” in Madagascar. Da lì ho capito,senza alcun dubbio, qual’è l’obiettivo del mio Viaggio. Di sicuro quella giornata ha cambiato il mio modo di vedere le cose, la gente, il mondo! Quella giornata, nella disperazione e tristezza mi ha cambiata e mi ha fatto crescere, tanto.

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