Scritto da Francesca Oro

Un viaggio faticoso. Il caldo soffocante accompagna le nostre giornate e l’attenzione è messa a dura prova. I volti si sovrappongono, sfumano uno dietro l’altro, velocemente, come le parole che raccontano di storie che sembrano sussurri alle mie orecchie impreparate. Con sforzo cerco di aggrapparmi ad un’immagine, ad uno sguardo, ad un sorriso così che possa restare per un attimo in più prima del nuovo giro di giostra, nuova formazione, nuovi incontri. Un’ora e mezza, a volte due per scattare una polaroid da mettere lì, insieme alle altre, in questo viaggio fatto di occhi, nasi, bocche che si mischiano nella mia memoria per fissarsi in un ritratto scomposto come quello che ha accompagnato le nostre attività in questi giorni. Un viaggio fatto di storie che per me diventano parole: abbandono, padre, speranza, frammentazione, compagni. Storie di donne che vivono nell’ombra di un uomo e di quelle che non lo fanno più. Storie di giornalisti che raccontano storie. Storie di detenuti che forse sono innocenti ma non avranno mai i soldi per dimostrarlo e quindi chi se ne frega. Storie di occhi che guardano se stessi attraverso uno specchio, di bocche che con voce emozionata disegnano nell’aria i tratti sfumati di vite a volte invisibili. Storie di sbarre che diventano alberi, di sogni che diventano barche. Storie di chi entra in un luogo e poi ne esce, diverso ma ne esce. E poi ci sono le storie di chi invece resta, per un tempo forse infinito, perché se anche quelle sbarre per un attimo sono diventate alberi, i loro rami trattengono, non lasciano andare. Poco importa se lo sguardo è dolce, poco importa se sei stato veramente tu. La scritta all’uscita dice “ABIERTO” quasi a ricordarti dove stai andando, mentre dietro centinaia di occhi, bocche, mani tornano a sfumare mischiandosi nella memoria di questo viaggio fatto di storie, di questo viaggio fatto di vite.

 

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