Scritto da Michela Gubitta

A Nyagatare si è appena conclusa una delle tante giornate trascorse tra l’entusiasmo dei piccoli della scuola Saint Leonard e le partite a carte dei ragazzi di casa Exodus, sono solo le 18 ma la luce ci ha già salutati per lasciare spazio alla notte e al riposo. Un’immagine viene alla mia mente, è l’immagine di te soddisfatto della tua bocca sporca di bianco perché bere una tazza di latte è una festa, l’immagine di te riflessa dallo specchio in un pomeriggio di colori e fantasia, l’immagine di oggi così diversa da quella riflessa dallo stesso specchio di un mese fa. Per questo ti scrivo.                                                                                                                                                                                                                                                                       Scrivo a te che quasi tutte le mattine ti sedevi da solo su una panca della Chiesa e ci aspettavi piccolo e un po’ infreddolito con le tue ciabattine arancioni. A te che custodivi attentamente un posto per noi che quando entravamo, ti vedevamo dal portone e i nostri sguardi si incrociavano. A te che un battito di ciglia bastava per comprendersi ed accogliere il tuo muto “maramutze”, buongiorno.                                                                                                                                                                A te che oggi vivi e condividi il tempo dei nostri passi lenti e un po’ stanchi della sveglia ancora al buio e ci porti allegro verso casa, verso l’inizio di una nuova giornata, mentre il sole timido comincia a riscaldarci e studenti con maglia bianca, pantaloncini marroni e un quaderno impolverato sotto il braccio, entrano a scuola.

A te che eri sempre così serio, serio come un bambino di cinque anni non dovrebbe essere. A te che quando ridi sei così bello e per un attimo i tuoi occhi, che parlano così pesantemente della tua storia e della tua strada, si dimenticano di quel passato concedendosi qualche salto e un calcio al pallone.

A te che tutte le mattine sgrani le pannocchie e poi, diligentemente, riempi il tuo secchio d’acqua e, piccolo tra tanti grandi, bagni l’orto.                                                                                                            A te che mi lasci senza parole e, senza fiato, abbracciarti mi commuove, mi abbandona inerme nei miei se e nei miei perché.                                                                                                                                                          A te che sei uno degli interrogativi di questo Rwanda dalle stoffe colorate, dai mille canti e dai tanti volti penetranti.                                                                                                                                                                  Per questo ti scrivo, perché mi stai insegnando ogni giorno il linguaggio del cuore, degli occhi, della pancia.

 

 

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