di Giulia Cambareri

È mattina presto a Roma e per i bambini del campo rom di Castel Romano è ora di svegliarsi, se almeno stanotte sono riusciti a dormire, nell’inquietudine di quell’ambiente angusto; nel buio di un luogo non luogo, un buio che è un vuoto d’amore e un pieno di violenza, rabbia repressa, frustrazione inespressa, incomprensione… Un campo di sogni distrutti.

Lì uno spiraglio di luce: sul piazzale arriva il pullman della scuola della Pace della comunità di Sant’Egidio. Così questi bimbi possono passare la giornata in un posto accogliente, dove ci sono acqua, un pasto caldo, colori e un prato immenso con i giochi.

Arrivano da noi, a Santa Cornelia, scendono dal pullman e la loro furia mi investe; li osservo, i loro occhi emanano tristezza, una tristezza dalla luce forte, che punta dritto al cuore… Una luce abbagliante, che si fa segnale di un bisogno di amore.

Imparo a conoscerli, a leggere i loro gesti, così vedo nelle loro provocazioni la ricerca di un rapporto umano. Non mi conoscono e vogliono capire se farò come molti degli adulti che si relazionano con loro nel campo o in strada, se cederò spazientita e allora alzerò la voce, li rincorrerò e con la forza li riporterò al loro posto.

Invece io non cedo e al “Vuoi vedere che scappo?” di Pinjo, io gli rispondo che lo aspetterò e quando vorrà tornare sarò lì per lui; Pinjo torna, si siede accanto a me e quando anche il momento compiti è finito, restiamo insieme a disegnare e ci esiliamo nella nostra bolla magica, che emana luce di umanità.

Così gli occhi tristi di Fabrizio incrociano i miei, gli dico che è bellissimo quando sorride; basta questo per avere un suo abbraccio e il mio cuore si fa più leggero.

Arriva poi Nesko che per una gomma scatena una discussione con gli altri bambini; cerco di fermarlo, ma lui di ascoltarmi non ne ha voglia e anzi mi insulta. Devo vedere oltre quella maschera mi ripeto, quella maschera che Nesko, come anche gli altri bambini, si sente costretto ad indossare, perché nel campo diventa essenziale per sopravvivere. Piano piano riesco ad avvicinarlo, ci passo il pomeriggio insieme e poi lui mi chiede di fargli un aeroplano; chiedo a lui di insegnarmi come si fa… Prende due fogli e mi dice di imitarlo, con pazienza mi sprona dicendomi che sono bravissima e che anche se sbaglio non importa, si può sistemare.

Con la sua semplicità riesce a sorprendermi, perché si fa specchio della cura e dell’attenzione che ho tanto cercato di mettere in gioco per relazionarmi con lui, e i miei incoraggiamenti si son fatti suoi. Mi dà un bacio e poi scappa.

Sono momenti che, anche se brevi, mi godo. Momenti pieni di gioia, di vita; mi fanno capire che quel poco che mi sembra di riuscire a fare, in realtà ha un grande valore per loro. Il semplice stargli accanto, tenerli per mano, la semplice carezza e il “Sei stato bravissimo”, sono un dono, sono luce.

La luce è diventata luce di stupore nei loro occhi, sorpresi di fronte alle magie di Davide…Sono bambini.

La luce è diventata curiosità alla vista del trucca-bimbi che Simona ha portato per loro…Sono bambini.

La luce è quella di occhi lucidi, quando i bambini capiscono che è l’ultimo giorno che passeremo insieme. Mi emoziono, e Serena mi porta il disegno di un cuore, con scritto che mi vuole bene e mi dice che darà un disegno a tutti quelli che piangono per farli sentire meglio.

Saluto per l’ultima volta i bambini e guardo il pullman allontanarsi; tornano al campo, ma la loro energia rimane.

Allora gli auguro di poter brillare, ma di una luce felice.

Condividi su: