Scritto da Lara Frassine

Mi ritrovo qui su una sedia, ad Ambalaki a guardare la bellezza di questo posto che è diventato la mia casa.

Da quando sono partita una delle cose che preferisco in assoluto è quando i miei amici da casa mi chiedono: “ Ma in che lingua parlate, cioè come comunicate?” E io non so mai rispondere bene perché effettivamente non lo so, parliamo due lingue completamente diverse ma credetemi, ci capiamo in una maniera che è a dir poco sorprendente.

Due volte a settimana facciamo attività in un istituto per ragazzi sordomuti e la prima volta che siamo andate per stare insieme e conoscerci ricordo che sono uscita da lì con il cuore che non stava più nel petto e con la mente inerte. Appena entrate i ragazzi hanno trovato un gesto che rappresentasse ognuna di noi, poi insieme in cerchio abbiamo imparato i gesti di tutti. Per due ore ho avuto le gambe che mi tremavano. Quei gesti raccontavano qualcosa, anzi quella cosa di ciascuno di noi, ognuno aveva il proprio gesto, unico e speciale. Per due ore abbiamo comunicato come mai mi era successo prima, le ore sono volate, ci siamo incontrati, ci siamo scoperti e in quella scoperta ci siamo rimasti e ci siamo tutt’ora.

Il primo venerdì abbiamo organizzato un percorso sensoriale sulla natura, i bambini erano bendati, li abbiamo accompagnati nel giardino e li abbiamo aiutati a sedersi. Ad un certo punto mi sono seduta affianco all’unico maschietto, appena ha avvertito il contatto si è aggrappato alla mia gamba e ha cercato la mia mano, ci siamo stretti forti come se non dovessimo lasciarci mai. Abbiamo aspettato insieme mano nella mano e sempre per mano abbiamo iniziato il nostro percorso, ad ogni tappa ci siamo fermati per un sacco di tempo, lui esplorava ed io con lui, costantemente cercava la mia mano per esplorare insieme ed aveva un sorriso sulle labbra che era di una purezza disarmante. Ci siamo ritagliati il nostro tempo e poi siamo tornati in aula, lui da quanto era emozionato continuava a sorridere e a tremare, io mi sono dovuta sedere perché avevo le gambe  di burro. Abbiamo condiviso la semplicità, abbiamo sorriso, abbiamo tremato, siamo stati deboli ma insieme.

Semplicità e sorriso sono due parole che ritornano costantemente in questo viaggio.

Quel sorriso complice di quando in carcere mostrando alcuni disegni delle attività precedenti, ho riconosciuto un disegno e il suo autore, quindi nel mostrarlo mi sono girata verso di lui, ci siamo guardati negli occhi intensamente e subito sul suo viso è partito un enorme sorriso, avevo riconosciuto proprio lui, fra tanti, fra tutti, proprio lui. In quel momento avrei voluto dirgli che si fra tutti avevo riconosciuto lui ma le parole non sono servite, è bastato un sorriso.

Dai primi  due incontri in carcere un bambino mi aveva colpito per la sua tristezza. Tutto in lui mostrava malinconia, il suo non sorridere mai il suo linguaggio del corpo. Si esprimeva solo se obbligato e appena finiva abbassava la testa e si guardava i piedi. Incamminandomi con Fede e Matti per tornare a casa ricordo di averci pensato molto a quegli sguardi malinconici e di averne parlato con loro, parlare con loro mi alleggerisce, mi fa sentire ascoltata. Il terzo incontro era sul colore, eravamo in cerchio, lui era seduto accanto a me, abbiamo iniziato a passarci uno specchio, ognuno doveva guardarsi, poi con i colori per il viso ognuno doveva dipingeresti come voleva e per il tempo che desiderava. Toccava a me, ho preso l’arancione mi sono colorata la punta del naso, mi sono girata per passargli lo specchio, gli ho sorriso senza aspettarmi che lui facesse lo stesso e invece lui mi ha sorriso, siamo scoppiati in una risata senza precedenti. Quel sorriso mi ha stravolto e ogni volta che torniamo in carcere e ritroviamo quel sorriso, il mio cuore si riempie di gioia.

Momenti semplici, essenziali come quando i miei occhi si sono riempiti di lacrime, mi sono sforzata di non chiuderli altrimenti sarebbero uscite tutte quelle lacrime. Eravamo in carcere, sempre noi, io Matti e Fede, eravamo in cerchio con i ragazzi ognuno stava disegnando la sua stoffa. Fra tutti i ragazzi ce ne è uno piccolo ma bello tosto, che ci sembra essere il “capo”, sempre serio distaccato, come a mostrare il suo essere il duro del gruppo. Ecco lui, il “duro”, sulla sua stoffa ha disegnato un enorme cuore, giallo, con alcune iniziali al suo interno.

Dare una spiegazione a queste cose non penso avrebbe senso, le sminuirebbe; e le chiamo “cose” perché per dar loro  il giusto nome bisognerebbe inventare  delle nuove parole.

Come quando Ila  risponde al tuo salute, si gira e ti sorride o quando Angelo appena sveglie ci viene incontro e ci dice: “Buongiorno Fede, buongiorno Lara tutto bene?”. O ancora quando ad Ambalaki da una chitarra e due persone si crea una band di venti ragazzi, con gli strumenti più disparati e insieme si inizia a cantare per ore.

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