Ci sono viaggi che prendono forma dopo molto tempo, come per magia, come per passione.

Scritto da Gabriella Ballarini

Era il 2014 e ci si metteva in viaggio per la prima volta, eravamo in quattro: Teresa, Francesca, Mila e io. Un viaggio di salite e discese, fiumi da navigare e perdersi per l’amazzonia con il timore e il fascino delle prime volte.

Il 2015, l’anno delle storie di vita e della fotografia. Fermare tutti in uno scatto, continuare a navigare e tornare e partire e farsi inondare dalla polvere e dai frammenti. Un gruppo di donne dai capelli tutti diversi, Annalisa, Attilia, Francesca e Federica: le mie amiche e compagne di viaggio.

Il 2016 le prime conquiste e il dolore del non capirsi, il provare e riprovare e alla fine tirare fuori la voce per chiamare il confronto, desiderarlo e finalmente: costruire. Costruire sempre insieme. Insieme a donne dal nome Francesca, Elisa, Elisa e Marta.

Eccolo qui il 2017 che ci sta riportando in Italia, con il suo mese di agosto che sembra novembre qui a Santa Cruz de la Sierra, ma prima di tornare vorrei raccontare.

Siamo tre quest’anno. Partendo ci siamo dette che siamo poche per poter viaggiare ancora di più, cambiare città, prendere aerei grandi e piccoli con velocità, per arrivare dove non eravamo ancora riuscite ad arrivare.

Ho iniziato a scrivere pensando di voler fare un bilancio ma in realtà la cosa che mi riesce peggio sono proprio i bilanci, far coincidere le entrate con le uscite, far quadrare i conti, tirare le somme e tutte quelle cose lì che hanno bisogno di tutta quella testa che io proprio non ho.

In queste settimane ho imparato l’attesa, ma quella vera, quella che tu stai seduta in un luogo insieme ad altre due o tre persone, in un silenzio dal sapore sconosciuto, quel silenzio che disegna riservatezza e timore. Insomma un’attesa vera, quella dei ritardi di venti, trenta, cinquanta minuti. Un’attesa che non si deve riempire per forza facendo qualcosa, ma si può riempire di pensieri. Ecco, scrivo proprio durante l’ultima attesa, quella prima del cerchio, prima dei saluti.

Quando prepariamo un’aula c’è un momento che racconta una strana meraviglia, è il momento in cui tutto è pronto sul pavimento e c’è sempre un raggio di sole che si insinua tra le tende e colpisce una porzione di mattonelle abitata dal tempo. Il tempo del pennarello che scivola sul foglio e fa nascere le parole, il tempo della lana di un viaggio di tanto tempo fa, il tempo dei pensieri e dei progetti, il tempo del corpo che cambia e trasforma i sogni in aeroplani.

Dopo questa sospensione, la vita entra nell’aula. Quella degli adulti, che arrivano dopo il lavoro, esausti e curiosi, quella degli educatori e delle educatrici che chiedono di capire, che vorrebbero ricominciare a camminare, la vita degli adolescenti che urlano di gioia e libertà, timidi e meravigliosamente in cerca di una qualche forma di equilibrio o di felicità. La vita delle donne che vivono nelle periferie, sole, con le mani segnate dal sapone e dalla paura. E gli uomini spaventati dalla vita che domanda, che esige, che sfugge di mano.

In questi quattro anni ho visto molti raggi di sole trafiggere il cuore del cerchio nel mezzo della stanza o nel piazzale rovente o sulla terra segnata dai passi, ho ascoltato infinite attese e visitato le vite altrui sperando di poter salvare la vita mia, di poter trasformare il silenzio in un progetto di resistenza al rumore e alla confusione.

Il corpo racconta, diceva il titolo di un libro che mi regalò una mia amica una volta, e non dimentica nulla, aggiungeva e allora forse il progetto dovrebbe esser questo, progettare la memoria senza rinchiuderla, aprire delle fughe, rompere i muri attorno, quelli che con pazienza abbiamo edificato, camminare la Bolivia senza muri nello zaino significa liberare il corpo in una danza così maestosa da far tremare il respiro.

E allora, danziamo. Adesso.

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