Scritto da Elisabetta Genchi

Caro educatore senza frontiere,

è difficile trovare le parole adatte per condividere le emozioni, le sensazioni, gli odori e i turbamenti, le scoperte e le felicità di questi miei 27 giorni in Rwanda. Lascio allora che le parole scivolino via sole… senza fermarle e senza stroncarle…. lascio che la penna trovi la sua espressione su questo foglio bianco…. e che si fermi solo quando decida lei…

Cerco di partire dall’inizio…

Mi ha accolta una terra rossa, una terra che sente ancora forte il peso del genocidio… un dolore che, come ci ha confidato il nostro amico Alphonse: “è un dolore troppo difficile da dimenticare”.

Mi ha accolto una terra rossa che subito si è attaccata ai vestiti, alla pelle, e che in qualche modo ti fa entrare in contatto con la realtà ruandese. Mi hanno accolto i sorrisi e gli occhi intensi dei ragazzi della casa Exodus che ci ha ospitati; mi hanno accolto le loro storie… storie difficili e che molto spesso non vorresti nemmeno sentire…

Storie di ragazzi che ancora bambini sono stati abbandonati per strada e che per giorni hanno vagato senza una meta.. Immagino le storie di Turinayo, Placid, Damaseni, Bosco….storie di bambini che diventano uomini in un attimo; uomini che, con delle semplici bolle di sapone, ritornano ad essere bambini.

E loro, ogni mattina, tra un “maramuze” ed un “amakuru”, mano nella mano ci accompagnavano a messa in una piccola chiesetta che è proprio a pochi passi da Casa Exodus, nel villaggio di Nyagatare: una chiesetta semplice, ma in cui si respira armonia, si respira pace e si respira pacatezza. Qui la gente canta ed invoca Dio in maniera gioiosa, quasi non avesse bisogno d’altro che non di un’alleluja cantata a due voci e suonata con un piccolo bongo. Molte volte, durante queste messe, mi sono ritrovata a commuovermi e, forse, anche a riscoprire in me quel senso di religiosità autentico e sincero, che un po’ avevo smarrito….

In questo mese africano ci sono stati anche quei momenti che mi hanno turbato; quei momenti in cui avrei preferito in qualche modo essere invisibile o per lo meno non avere la pelle di un colore diverso dalla loro… ci sono stati quei momenti in cui avrei preferito non essere un” muzungu”, un bianco, perchè sono quei momenti in cui hai gli occhi di tutti puntati addosso… occhi che piano piano si avvicinano e non si limitano più a scrutarti ma cercano in qualche modo un contatto fisico…  e iniziano a toccarti, a capire se davvero anche tu sei un essere umano.. se esisti e sei realtà fatta di carne e ossa… ci sono quelle mani che ti si appiccicano addosso e che ti toccano capelli, pelle, viso… mani e sguardi che avrei voluto in qualche modo solo allontanare.. momenti duri, in cui si fa fatica anche solo a far finta di nulla….

E poi ci sono stati loro, gli educatori della casa famiglia… Gatera, François, Joseph, che giorno dopo giorno, costantemente e quasi senza affanno, dedicavano il loro tempo ai ragazzi della casa… ed io molte volte, questi educatori, mi sono fermata ad osservarli e ammirarli… Li vedo ancora lì, come se fossero ora davanti ai miei occhi, seduti sotto il gazebo a scambiarsi idee e rispetto… a scambiarsi parole e suggerimenti… ad aiutarsi a vicenda tra una risata e un discorso serio. Li vedo ancora lì, sempre insieme, come buoni amici più che come colleghi….

Questi educatori, dall’età giovanissima, li ho visti accompagnare i ragazzi verso il loro cammino di vita come fossero fratelli maggiori… li ho visti impegnarsi ogni giorno e tutto il giorno per cercare di farli stare bene, educandoli con autorevolezza, con la cura necessaria.

Ho camminato con loro in questo mese, e da loro ho imparato tanto e forse riscoperto cose, che un po’, in questo mio anno lavorativo, avevo lasciato andar via…..

Mi hanno aiutato, in qualche modo ad andar oltre le mie convinzioni, i miei egoismi e i miei limiti… mi hanno aiutata a non perdere il centro, il senso e il valore dell’educare….

E quindi, non posso che dir loro… MURAKOZE!!

 

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