Scritto da Annalisa Bergantini

Due fette biscottate, tre fette di pane, due cucchiai di cereali. Aspettiamo che ci siano tutti per mangiare. «Bonaaaaaa!!!!»

LA MAPPA

La Mammoletta è tutta in salita e il campeggino te lo devi conquistare. Varchi il cancello e pensi di essere arrivato. Ancora salita e sei in cucina: un sorso d’acqua. Ancora salita e sei al tendone: un po’ d’ombra. Ancora salita e i bagni, finalmente! E un po’ più in là, in fondo in fondo a tutto, c’è il nostro villaggio tendato. Siamo tutti vicini. Noi ESF siamo più che vicine, siamo quattro corpi allineati che ci stanno dentro solo se in “posizione orizzontale”. Dentro la tenda, noi quattro. Sistemiamo cuscini, stendiamo sacchi a pelo, formiamo un lettone di tappetini. I corpi si adattano, evolvono più veloci delle nostre menti. Il sonno segue il corpo, si adatta anche lui, giorno dopo giorno.

La Mammoletta ha un cuore pulsante, la cucina, che è al centro di tutto. Crocevia di mani che preparano, visi che si affacciano, passi veloci che camminano. La cucina è anche quiete. È la tisana calda di Pablo la sera, le storie narrate da Marta per dare gli ultimi tocchi di pennello ad una giornata appena vissuta. Tutti partono e tornano dalla e alla cucina, da mattina a sera. Nel mentre, si disperdono all’officina, all’orto di sopra, all’orto di sotto, al piazzale delle barche, al ping-pong. Nel giardino segreto delle sculture.

LA STORIA. Marta e Stani

Sotto un albero, vicino al tendone dove si mangia, c’è un grande disco di legno. “La vecchia trebbia” c’è scritto. È il segno che questo posto viene da lontano, viene dalla storia personale di un uomo e di una donna, che vent’anni fa – e delle date non sono affatto certa – hanno creduto in un progetto e l’hanno plasmato.

Hanno preso le loro conoscenze, i loro vissuti, le loro trebbie, i trattori, le mani sapienti, la conoscenza dei venti e dei grani e li hanno messi a servizio di un’idea.

Marta non ci racconta molto. Non perché non abbia voglia di farlo, o non le piaccia raccontare. Anzi… Marta semplicemente non ha tempo. Corre da una cosa all’altra, sale in macchina, riscende. Appoggia il telefono, non ricorda dove l’ha messo. Mette gli occhiali, leva gli occhiali. Lavora un po’ in ufficio. Poi qualche problema la richiama fuori, al suo essere educatrice, al dover ribadire regole, compiti, priorità.

Marta è donna, madre, moglie, educatrice. E alla sera ha voglia di ridere un po’. Noi ci fermiamo con lei e le regaliamo lo spazio del ridere, del raccontarci un aneddoto dieci volte, per poterne ridere forte altre dieci volte.

Marta alla sera ci racconta frammenti di storie, di dolori, passi falsi, fragilità ma anche rinascite. Quelle che ogni giorno stiamo vedendo anche noi.

Marta e Stani: viene quasi da pronunciarle attaccate queste tre parole. Senza pause. Senza punti, virgole o lettere maiuscole a precisare lo stacco.

Eppure Marta e Stani non si vedono praticamente da mesi. Stani naviga tutta l’estate. Offre il privilegio di conoscere il mare a chiunque, senza distinzioni di abilità: zoppi, cechi, sordi, pazzerelli. Dice che «tante piccole isole formano un arcipelago, dove si naviga in tutta sicurezza». E allora lui cerca sempre le piccole isole perché in ciascuna trova la ricchezza e la diversità.

A Stani piace fare scommesse con i ragazzi, provocarli e lanciare il guanto di sfida. Stani è il primo a divertirsi giocando. Ma il suo gioco è educazione, anche se poi finisce che le scommesse che perde non le paga, e la pizza o il gelato non li offre mai. E i ragazzi sono contenti lo stesso, perché così hanno modo di rinfacciarglielo. Stani, secondo me, lo fa a posta. Così i ragazzi possono urlargli ancora dietro «pizza, pizza, pizza!» e sperare che per una volta la scommessa vinta abbia la sua giusta ricompensa.

I NAVIGANTI DELLA MAMMOLETTA

Stavolta siamo in quattro, anzi cinque con Pablo, che torna qui con Luciana ogni volta che può. Anzi siamo sei con Giulia, che viene in comunità per svolgere il suo tirocinio di laurea. Sette, se ci metti che ogni tanto viene Lucia, tirocinante per diventare psicologa, accolta sempre da tutti con una grande e sorridente ‹‹Luciaaaa!!!››.

Non siamo gli ottanta del Cammino, possiamo navigare a vista. Possiamo conoscere il luogo che ci ospita, dedicarci parole, racconti, disegni di isole e inchiostro di storie. Camminare vicini. Formare un gruppo, che è una delle parole che ha riacquistato senso per me. Possiamo chiudere gli occhi, prenderci per mano, riaprirli e pensare insieme a come districarci. Sentire i respiri.

Possiamo progettare di costruire una zattera, affidarci alla guida di Celeste e all’operosità delle mani proprie e degli altri. “Leo, montaggio”, “Yuri, legno”, post-it che fanno del gruppo una squadra che si affida.

I naviganti prendono il ritmo, e con esso chiodi, viti, corde, bancali (o pancali?!), canne o bambù. I naviganti sfregano, annodano, raschiano, battono.

La zattera prende forma, ma non galleggia. I naviganti disegnano sulla terra gialla modifiche al progetto. Le immaginano incise sulle nuvole. Costruiscono galleggianti di bambù, tagliano pezzi, legano insieme, stabilizzano.

I naviganti decidono che quella zattera sarà scesa in mare portandola in spalla. Come fosse una Madonna in processione durante la festa del santo patrono. I teli da mare diventano le stoffe bianche dei facchini. Un remo in mano a Yuri l’incenso del prete. Si cammina, si canta. Il passo è svelto. È un corteo di giovani naviganti che freme di vedere se quella zattera galleggerà. Anche le donne la vogliono portare in spalla e la trasportano. La zattera arriva al mare, si posa, galleggia! Il varo è fatto.

Chi si sente un naufrago, chi vuole aggrapparsi per primo alla zattera? Salgono Massi, Salvo, Yuri e Andrea. Cominciano a remare e in un attimo si allontanano, sfrecciano senza paura verso il Bamboo e il Maria Teresa, le due barche che ci fanno da boa. Noi tutti li seguiamo, e i giochi del mare hanno inizio.

Una metafora potente quella della zattera. Simbolo del naufragio e dell’ingegno umano. Del poco, dell’essenzialità, del movimento. Oggetto in trasformazione continua, costruito dalle mani e con l’amore di tutti noi. Scetticismo iniziale, entusiasmo nel percorso, vittoria finale. Fatica e sudore. Soddisfazione.

Più volte richiamata, la zattera, nel fare parola, nei disegni delle nostre isole, nelle lettere finali ai futuri naviganti della Mammoletta.

Abbiamo chiesto ai nostri naviganti grandi sforzi di riflessione. Di scendere in profondità. E loro ci hanno preso per mano, e sono scesi, ognuno dentro di sé. Dentro le proprie paure, i propri incubi e le proprie bellezze. Abbiamo chiesto loro di guardare all’altro. L’altro da sé, che specchia e conforta. Gli abbiamo chiesto di trovare il passo comune. Dopo la salita in deserto verso Santa Lucia, la discesa a quattro gambe verso il mare. E “le storie del te, raccontate da me” che ogni volta rivelano sfumature, piccoli dettagli, bellezze nascoste e strati di sofferenze lasciati in fondo al cuore. Storie che accennano altre storie.

E ascoltandole, e parlando con Ciccio, io ho pensato che ognuno dei naviganti è come un tubetto di bolle di sapone, che nella sua vita ne ha fatte e ne farà tante di bolle, e di tutti i tipi. Bolle piccole e belle che sono volate lontano, bolle più grandi e luminose che ancora volano in aria. Bolle che sono uscite dalla bocca con una forma strana, magari ovale invece che tonda, e che poi si sono rotte. Ma non per questo il tubetto smette di fare bolle. Respira di nuovo, appoggia le labbra e soffia. E altre bolle usciranno, e altre bolle dai mille riflessi voleranno.

Abbiamo parlato dei cancelli della tossicodipendenza, del fuori e del dentro, delle etichette che ti mettono gli altri e che ti metti da solo. A me questa condizione viene da pensarla come una bolla di sapone, fra tante che soffiamo nella vita. Una bolla grandissima, che si è rotta, che è scoppiata e non ce l’ha fatta a continuare a volare. Mi piace pensarla come una bolla di sapone storta, che prima di riuscire a farne delle altre belle c’è bisogno di tempo, di cura, di attenzione verso di sé e verso gli altri. C’è bisogno della comunità, del fare insieme e delle regole. C’è bisogno del ‹‹voglio stare bene›› che ci insegnano Pablo e Luciana. Mi pare di aver percepito la tossicodipendenza come un aspetto del tutto – una cosa che ti segna per sempre, che ti scava, certo – ma che non è il tutto stesso.

Quest’esperienza mi ha fatto pensare alle isole della fragilità. Se adesso mi fermassi e, invece di disegnare i momenti apicali della mia vita battezzandoli col nome delle cose belle, disegnassi quelli abissali e gli dessi il nome delle crepe che mi hanno attraversato e che ognuno di noi porta con sé?

Il mio disegno delle isole sarebbe forse simile a quello di Ciccio, di Nicla, di Valerio o di Caterina. Ma forse cambierebbero le barche, le zattere e le funi a cui ci siamo aggrappati per saltare da un’isola all’altra, e gli alberi sui quali ci siamo arrampicati per sfuggire alle nostre tre fiere prima di incontrare Virgilio.

Sono momenti impercettibili, amicizie sbagliate incontrate per caso, terremoti che ci scuotono ma che non abbiamo provocato noi, a fare la differenza tra una strada e un’altra. Tra il mio disegno delle isole e quello di uno dei ragazzi che ho incontrato. Tra una bolla che è scoppiata e una che ha continuato a volare.

 

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