di Lucrezia Franceschi

Siamo in volo. Ci aspetta un lungo viaggio. Il viaggio del ritorno. Il viaggio di ritorno verso casa. Abbiamo lasciato i bagagli in aeroporto da poco. E’ una strana sensazione: il peso delle valigie è molto più leggero dell’andata ma io ho proprio la sensazione di portarmi via qualcosa di grande, di importante.
In queste settimane ho cercato di fare più spazio possibile nella mia testa e nel mio cuore come se fossero dei veri e propri bagagli.
Forse è ciò che ho vissuto, visto, che mi è stato donato che prende posto nei miei pensieri e non mi permette di riposare. Mi giro sulla poltroncina dell’aereo. Cerco la posizione più comoda per dormire ma non ci riesco. Provo a leggere ma non con la giusta concentrazione.
Sono un po’ stanca fisicamente ma la mia mente vaga. Passa da un momento all’altro. Salta da un’immagine all’altra. Si avvicina e si allontana a ciò che, fino a qualche ora fa, ha riempito le mie giornate.

Giornate piene e vive. Frenetiche. Colorate. Sono stati necessari gli occhi per vivere fino in fondo questa esperienza. Occhi per scoprire cose nuove, per esplorare, per accarezzare, per ringraziare. Non riuscivo a farmi bastare i miei occhi però. Ho avuto bisogno degli occhi di Serena, Martina, Laura, Francesca, Claudio ed Elena. E’ con tutti i nostri occhi che riuscivamo a tessere la trama dei ricordi della giornata. Come un gomitolo tutto intrecciato di sensazioni ed emozioni che, con l’aiuto di tutti, si liberava dai propri nodi.

Lo stesso gomitolo utilizzato per le attività con i ragazzi di Human. Ragazzi che ci hanno accolti, conosciuti e che hanno pensato e ri – pensato le attività per il villaggio di Ivoamba. Ragazzi che hanno voglia di imparare, provare e mettersi in gioco. Ragazzi che riescono ad andare oltre alla differenza di lingua. Ragazzi con cui passavamo giornate intere, camminando sulla terra rossa e passando tra le risaie, tra pensieri, canzoni e risate. Un cammino ricco. Un cammino di conoscenza fino ad Ivoamba.
Lì, dove con degli occhi superficiali potevamo vedere solamente tanta povertà, ci aspettava un’immensa ricchezza. Circa centocinquanta bambini. Bambini che hanno accettato col sorriso tutte le attività che gli abbiamo proposto, che ci accoglievano cantando le canzoni che abbiamo insegnato loro. Bambini che ci hanno messo di fronte a delle nuove “sfide”. E’ stato stimolante riflettere con i ragazzi di Human sull’andamento della giornata. Plasmarsi e modificare i propri schemi, le proprie idee, scardinare i pre – concetti e scoprire visioni nuove dell’educazione. Ma è stato ancora più bello cercare il giusto equilibrio tra noi, loro e i bambini in un turbine di serenità, curiosità e voglia di fare.
…e quando salutavamo i ragazzi di Human a fine giornata, ci trovavamo davanti al cancello blu. Il cancello di Ambalakilonga. Il cancello da cui si intravedeva la palma del viaggiatore e si potevano sentire i suoni di una chitarra e qualche tamburo. Suoni di tranquillità, suoni di casa. I ragazzi di Ambalakilonga ci hanno fatto sentire a casa sin dal primo giorno. Chi con un sorriso, chi con una risata, chi con un semplice “Come stai?”. E la voglia di conoscenza è tanta ma il tempo non è molto. Allora ci si conosce tra una pausa e l’altra, durante la corveè, prima della preghiera. In modo non invasivo. Leggero. Con poche parole, scelte in modo accurato.
Dallo stesso cancello passavamo per andare all’orfanotrofio. I ragazzi di Ambalakilonga ci aprivano il cancello, ci ricordavano l’appuntamento per la preghiera e seguivano il nostro cammino fino all’entrata dell’orfanotrofio. Ad aspettarci bambini di tutte le età. Alcuni volti incrociati e conosciuti durante le attività della Maternelle. Altri volti ci avevano guidati, con l’emozione di chi mostra la propria casa ai nuovi ospiti, la prima volta che siamo stati all’orfanotrofio. Piccoli corpi che ci prendono per mano, si ricordano il nostro nome e ci accompagnano dai neonati. Occhi grandi. All’inizio un pò seri e intimoriti dalla nostra presenza. Occhi che però sono curiosi. Occhi che capiscono che noi siamo lì per stare con loro. Occhi che, dopo la pappa, sembra quasi vogliano venire con noi. O forse siamo noi che leggiamo questo, che non riusciamo a passare così poco tempo con loro, che ne vorremmo ancora di più?…
Alcuni di quegli sguardi li abbiamo incrociati, un pò assonnati, la mattina che siamo andati al carcere dalle donne. Donne che sono mamme. Mamme che non vedono quasi mai i loro bambini. Mamme che ci hanno ringraziato per averle portato i loro figli. Quando, forse, dovevamo essere noi a doverle ringraziare per tutte le volte che abbiamo sbirciato i loro abbracci, pieni di pace e amore, in un luogo dove si percepisce tutt’altro. Ci affacciavamo dalle finestre con le sbarre, tra una pizza e l’altra, per scorgere gli attimi di vita quotidiana che vivono queste persone. E nella nostra solita curiosità, abbiamo incrociato la curiosità/bisogno di queste donne. La curiosità di vedersi in foto. La curiosità di chi non è abituato a vedere il proprio corpo. E la commozione di chi si riconosce oppure si stupisce dei cambiamenti che il proprio fisico racconta.
Corpi che cambiano, che mutano, che parlano. Come i corpi degli anziani che abbiamo conosciuto andando a fare volontariato il sabato mattina. Corpi che, nonostante le difficoltà legate all’età, riescono ancora ad acquisire posizioni scomode per lavorare la maglia oppure per decorare, con foglie di riso e banano, oggetti.

…e tutte queste immagini mi si ripresentano ora, in volo. Mentre guardo fuori dal finestrino lo scorrere lento delle nuvole, una serie infinita di mani, piedi, occhi, bocche, corpi, mi ricordano, in modo ancora vivo, ciò che è stato. Quello che non sapevo avrei trovato. Quello che ho trovato e mi ha stupito. Emozionato. Fatto sorridere e commuovere. Quello che la sera cullava i miei pensieri nel letto prima di prendere sonno. Quello che mi aspettava la mattina quando suonava la sveglia. E adesso che ripercorro ciò che è stata l’esperienza in Madagascar e che realizzerò piano piano nel tempo…solo un dubbio mi assale: quello di non riuscire a trovare le giuste parole per rendere bene l’idea di ciò che è stato.

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