C’è un silenzio che commuove, in questa stanza piena di banchi e sedie disposti in cerchio. Pochi movimenti, solo per prendere i colori e temperare le matite.

Scritto da Silvia Grugnaletti

Qualche sussurro, che ha paura di distrarre gli occhi troppo concentrati di quindici bambini che hanno scelto di non andare a giocare a pallone, per fare “un compito per me”: disegna le persone che vivono con te, che sono più importanti e che passano molto tempo con te.

Qualcuno mi chiede a quale casa mi riferisco, e gli dico di scegliere, pensando alle persone più importanti con le quali passano più tempo. Qualcuno, imbarazzato, mi dice che non è bravo a disegnare, ma ha ben in mente chi disegnare e in quale casa. Mi guardo intorno, perché non riesco a credere a questi silenzi che mi mancavano da tanto tempo. C’è sempre un gran caos in questa casa, specialmente in questa stanza che è l’aula studio, specialmente con alcuni di loro. Adesso sono seduti, in un silenzio che invece, per me, grida parole che non vengono mai dette, perché in pochi sono disposti ad ascoltarle. Io adesso sono seduta qui, e ho chiesto loro di poter ascoltare queste parole mai dette attraverso un disegno che forse, e dico forse, fa meno male.

Passano trenta minuti, ed ecco il primo che mi consegna il disegno: l’ultimo arrivato e il più difficile da capire, perché parla un portoghese sgangherato e sconnesso, misto alla lingua locale; parla “la lingua della rua” e le sue facce ci fanno sempre sorridere. Anche stavolta ha fatto delle facce strane all’inizio, poi ha iniziato a raccontare. Racconta tutto, da quando è uscito da casa lasciando il fratello, a quando è salito su un treno, a quando è stato trovato da qualcuno che l’ha ospitato e poi mandato via. È assurdo, per me, che riesca a ricordarsi tutti i nomi delle persone che ha incontrato lungo questo viaggio che lo ha portato fino a qui, al Centro de Acolhimento di Huambo. E’ assurdo, perché sa il suo nome e la sua età a malapena, e non sa dire da dove viene. Ricorda quando ha visto un signore che mangiava per strada a cui ha chiesto un pezzetto di “comida” o del “dinhero”, perché aveva fame e, invece, lo ha cacciato via. Poi ne ha incontrato un altro che l’ha fatto sedere e gli ha detto di non muoversi. “Allora io sono rimasto lì e lui poi mi ha portato qui e non mi sono più mosso”.

Mi chiede di fare un altro disegno e, stavolta, la casa è più grande e più colorata. Vedo molte persone e sempre più colori, e aspetto curiosa che mi racconti anche questa storia. Grazie ad un foglio e un po’ di matite colorate, è più facile lasciar andare i pensieri e tutti i ricordi che un bambino di undici anni può avere, dopo essere andato via da casa e aver vissuto in strada. E tutte le sue grida, le parole sconclusionate, il suo modo di toccarti continuamente, il suo essere così invadente, prendono il loro posto. E’ concentratissimo e pensieroso, serio come non l’ho mai visto. Mi consegna il secondo disegno e ride, dicendomi che la casa grande che ha disegnato è il Centro de Acolhimento Criança Feliz, e che tutte quelle persone colorate, siamo noi.

Così passa molto tempo e, pian piano, chi ha terminato si avvicina per mostrarmi il proprio disegno e descrivere le persone che, per lui, sono più importanti e con le quali passa molto tempo. Ed eccoci lì: io, Elena e Monica, rappresentate nella maggior parte dei disegni. Tante storie e tanti modi differenti di vederci: C. ci disegna tutte attorno a lui, S. ci disegna su un elicottero mentre stiamo per salvarlo da un naufragio, F. ci disegna sdraiate al sole che lo guardiamo e ci scatta una fotografia, C. mentre andiamo in chiesa e arriviamo rigorosamente per ultime, F. ci disegna come dei supereroi, e tanti altri ancora. Sorrido, li lascio parlare e raccontare tutto quello che vogliono su di noi, su questa casa, su se stessi.

C’è stato un silenzio che mi ha commosso, quello dei fogli bianchi e delle matite colorate, durante un pomeriggio qualunque, qui a Huambo. E’ stato un silenzio creato, desiderato, amato. E’ un silenzio cercato, ottenuto con semplicità, ed ha una durata sempre troppo breve per me. Per loro, invece, è troppo, perché non sono abituati, perché lo associano all’assenza, al vuoto. Per chi il silenzio è abuso, è una strada di notte, è la fuga, è la fame, è il freddo e poi la sete. E’ la ricerca di un posto sicuro dove dormire, è elemosina. Per alcuni, il silenzio è non riuscire a guardarsi allo specchio per più di dieci secondi, perché vedono riflessa solo tristezza. Per qualcuno, il silenzio è un fratello morto in strada, a cui è stato dedicato un orto, troppo muto anche quello. C’è chi ha un fratello qui accanto, ma non lo considera, perché gli ricorda solo il silenzio di una casa troppo povera e di una madre malata. Per altri invece, il silenzio è il ricordo di genitori che non possono tenere i propri figli con sé, perché troppo poveri, troppo malati, troppo vecchi o troppo impegnati con la loro vita. Il silenzio così diventa rifiuto, ostilità, lontananza, ferita.

Non è questo il silenzio che voglio regalare a questi bambini e ragazzi, perché è l’unico che hanno sempre conosciuto e che ha fatto male per troppo tempo. Vorrei che lo facessero parlare, che lo tirassero fuori almeno un po’, anche solo con un disegno. Vorrei dar loro un’altra chiave di lettura, un’altra prospettiva del silenzio: quello della pace, della condivisione, dell’affetto sincero.

Bastano dei fogli, dei colori, un po’ di musica per non farli sentire troppo in balìa di se stessi e del tacere che li circonda, ed ecco che tutto cambia, tutto si trasforma. E cambio anch’io, nel mio silenzio, che ritorna ad essere serenità, fiducia e speranza per un posto che ogni giorno mi chiede di lottare, pur sempre con il sorriso e con una pazienza infinita. Certi giorni, la forza di fare manca, ma quella dell’esserci c’è sempre. E’ esserci che sta cambiando tutto: me, noi, loro, questa casa. Esserci, anche nel loro tacere, voluto o meno. Esserci, per regalare silenzi che sappiano apprezzare: quelli per l’amor proprio, quelli che aiutano a mettere in ordine tutte le maschere. Quelli che permettono di guardarsi allo specchio, per più di dieci secondi.

C’è stato un silenzio che mi ha commosso ed altri silenzi che mi hanno raccontato storie. C’è stato un momento in cui il mio silenzio ha incontrato quello di questa casa, ed è diventato parola.

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