Da Africo, provincia di Reggio Calabria. Una narrazione fatta di valige e colori.

Scritto da Lisa Silvagni

In aeroporto osservo la fila indiana delle persone che sentono l’oggetto valigia insolito e ne discutono più o meno animatamente. Mi colpisce l’attenzione un nastro blu di raso che svolge la mansione di tenere assieme i vari pezzi di una valigia sfaldata dal tempo. Un arnese piccolo e ingombrante come il pensiero, del settantenne che la porta al suo seguito, di rimettersi in viaggio dopo decenni che sembrava aver rimosso anche la più remota possibilità di farlo.

Chissà se quel nastrino blu reggerà all’agitazione di questa nuova avventura. “Si fa presto ed è economico” dicevano i nipoti, ma ora è lui ad essere qui e a sentirsi fuori dal tempo. Improvvisamente un bagliore giallo lo colpisce e una voce gli sussurra di sistemare il suo bagaglio che ora è vuoto e leggero, come il pensiero a riguardo che è cambiato e non lo spaventa più.

Ora che si è condiviso il momento dell’imbarco, non è più così estranea, scomoda e pesante la valigia e compare sul volto dell’uomo un ghigno di soddisfazione. “L’evento valigia” questo arcano mezzo per le mete lontane: c’è chi ne compra una nuova per il viaggio tanto atteso e pianificato, chi invece tira fuori il vecchio trolley anni 80 rovinato dalla noia logorante di non essere mai stato usato. Mi stupisce come l’aggettivo riferito alla valigia lo avrei attribuito anche al proprietario. Nel mio caso per esempio direi – non è mai abbastanza – siamo d’accordo che non è un aggettivo, ma quando è già chiusa mi capita sempre di avere quell’ultimo ripensamento che mi ci fa buttare dentro quel qualcosa in più. . . eh ma vaglielo a spiegare all’ansia!

Il blu del laccio che per miracolo tiene insieme la valigia, il blu del sedile d’aereo, il blu della poltrona del treno, il blu della stanza in cui sono ospite, il blu del portone della struttura ad Africo, il blu dei vestiti di Anna (credo abbia un amore smisurato per questo colore, lo indossa sempre, o forse ricerca la tranquillità che questo colore trasmette) e infine i profondi blu del mare e del cielo, che definirli blu sembra quasi un diminutivo, tante sfumature sono in grado di creare.
Chi incontro passeggiando mi scruta con fare circospetto, pomposo di poter dare libero sfogo al suo giudizio sul mio modo bizzarro, secondo i canoni del mercato, modo di vestire. Quando chiedo informazioni su che mezzo prendere per arrivare ad Africo Nuovo mi chiedono, sicuri di non aver capito bene, “ad Africo devi andare? Beh aspetta Federico”. Dentro di me penso sconcertata – e chi è sto Federico? – scopro che è la linea dell’autobus. Nell’attesa le persone mi approcciano in un inglese molto maccheronico e si stupiscono quando rispondo loro sorridente, in italiano.

Li lascio per una frazione di secondo a bocca aperta, è magico il momento della meraviglia.

Salita finalmente sul bus un gruppo di giovani mi fa posto vicino a loro e nel giro di poco inizia una sfida a scopa e la primiera la fa da campione. Io e il compagno di disavventure perdiamo clamorosamente, ma a me non importa molto, la piccola vittoria di aver condiviso la loro quotidianità ce l’ho già in tasca.
Ad Africo sono piombata in Africa, nella stessa Italia sono io la straniera.
Questa terra mi ha trasmesso fin da subito la duplice sensazione del sommesso e del eclatante. La fatiscente Calabria dove tutto a prima vista appare essere in equilibrio precario, mentre le radici sono molto più profonde di quanto sembra. Nella stazione di Lamezia ho incontrato molto turisti meravigliati dall’inaspettata sorpresa che questa regione offre. Un ritornello di odi et amo, di contraddizioni che però non hanno scappatoie, come una matassa dal filo talmente ingarbugliato che tutti in sua presenza alzano le mani, anche i più preparati e sapienti. In questa giungla è presente una realtà, una sfida, che vale doppio: l’immigrazione. “Nasciamo tutti uguali” mi suggerisce Mannarino in sottofondo, come un bisbiglio potente e che non si può ignorare. Ho trovato in Africo, una cittadina molto curiosa, soprattutto verso di me che ero la novità, per l’appunto la straniera. Una terra dai colori sgargianti e dai sapori molto forti: peperoncino, ‘nduja e pistacchio ne fanno da bandiera.

La stessa zolla di terra un secondo dopo arida, violenta ed ostacolante che certo non offre opportunità lavorative a chi vive qui, figuriamoci ai ragazzi immigrati. Avvolta e coinvolta dall’ospitalità calabrese mi ritrovo in mezzo a papiri di carte e scartoffie giuridiche necessarie ai ragazzi per poter avere i documenti necessari a rimanere sul territorio italiano, poi che ne sarà di loro? Corsi di formazione su tutte queste leggi, decreti leggi e provvedimenti, uno dopo l’altro come a cercare di tenere insieme il faldone dell’immigrazione. Difficile realtà e frastagliata. A mala pena si riesce a rincorrere le leggi e i cambiamenti in materia, inoltre la società non è umanamente pronta all’incontro, troppi pregiudizi e discriminazioni precludono la vera conoscenza e scambio umano. I sentimenti e sogni dei ragazzi del centro, che per certi istanti posso sentire come echi dentro di me, non si sentono accettati dalla comunità italiana.

A monte di tutto c’è un’errata visione del fattore immigrazione, dopo più di sette anni è vergognoso che se ne parli come emergenza! I media influenzavo e veicolano l’opinione pubblica in una maniera molto superficiale. E maledetti noi che stiamo a questi patti, senza fare la fatica aggiuntiva di andare a informarci! Inoltre si parla molto dell’accoglienza e tutti i vari circuiti che ne sono coinvolti, ma l’accoglienza è solo il primo passo, l’integrazione vera e propria a quando è rimandata? Le parole co-responsabilità e arricchimento culturale che l’immigrazione porta con sé sono concetti alti e rispettosi, ma la pratica? Non si può continuare a pensare che sia un evento di durata precisa nel tempo, se queste persone sono “costrette” a rimanere sul territorio italiano, perché l’Italia non è più un territorio di passaggio come nei primi anni dei movimenti migratori, bisognerà interrogarsi su quante persone il territorio e rete italiana potranno veramente integrare permettono loro di trovare un lavoro e una casa. La migrazione è un processo irreversibile, non si può pensare che queste persone torneranno dai paesi da cui sono emigrate, allo stesso modo in cui un italiano emigrato in America o qualsivoglia posto, non tornerà in Italia. La contaminazione culturale sta già avvenendo e questo è il vero arricchimento se lo si vuole vedere. Le persone più anziane vivono questo nuovo status con distacco e diffidenza, paura di perdere il loro passato e quello che ne è stato, si potrà aiutare queste persone soltanto tramite l’informazione e non la paura del mostrare le immagini degli immigrati vicino a messaggi di violenza.

Come si può assorbire e in che capacità la nuova manodopera che arriva? Gli SPRAR e CAS dovrebbero essere collocati in zone dove è possibile un inserimento lavorativo, o per lo meno avere la capienza in base alla capacità di assorbimento lavorativa della cittadina a cui fa riferimento, se no già si mettono le basi per il famoso “business sull’accoglienza”. Questa dell’immigrazione più che altro sta diventando una crisi di lungo periodo. La vera sfida, a mio avviso, è fornire gli strumenti affinché le persone siano poi autonome una volta sul territorio, non renderle dipendenti togliendo loro la libertà di circolare. Tutto mi appare come un grande dinosauro immobile. Il problema è che chi ne pagherà le conseguenze sono proprio questi ragazzi che cercano un futuro migliore.
 

 

 

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