Scritto da Giuseppe Vico.
Quando un Educatore Senza Frontiere (ESF) si ferma qualche anno, avverte con lenta gradualità un certo disagio che ha più il sapore della vulnerabilità che della fragilità. Il ricordo va a tanti vissuti che in poco tempo mi avevano fatto credere che quel mondo così tragico e così bello verso il quale andavamo con entusiasmo e cercavamo di comprendere, ci traeva in inganno perché con i nostri strumenti interpretativi non riuscivano a coglierne la dimensione storica e quella economica-sociale.

I nostri strumenti interpretativi mancavano di una <> imprescindibile per conoscere quelle terre senza orizzonti, nelle quali eravamo approdati con entusiasmo e cuore aperto. I primi incontri così intensi di empatia si esaurivano nella conoscenza affrettata di persone , di gruppi, di orfanotrofi, di piccole comunità. Alla fine l’Africa per noi era essenzialmente quello che ci dicevano alcuni missionari con i quali avevamo stabilito interazioni assai significative.
Non sapevamo quasi nulla e il nostro non-sapere entrava in contatto con un silenzio ormai quasi atavico, quasi fossilizzato su ciò che erano stati per l’Africa: schiavitù, colonialismo, sfruttamento dei Paesi poveri, mortalità infantile e una povertà allucinante che durava da secoli. Partivamo contenti che un po’ di formazione fosse sufficiente a convivere, a stabilire relazioni di aiuto, a fare qualcosa, anche piccole cose, per alleviare almeno un po’ quella immensa povertà che sembrava non esser stata significativamente raggiunta dalla carità. Qualche volta mi veniva da chiedere: Dio dei poveri dove sei? Col tempo capii che solo Dio, in effetti, era presente tra loro e che ogni sera in quel cielo africano proprio Dio avveniva tra gente, missionari e qualcuno di noi. Eppure tanti uomini e tante donne hanno dedicato e ancora dedicano mente e cuore in aiuto di quei popoli.
So di addentrarmi in paradossi ma senza paradossi e la volontà di interpretarli il mondo non cammina. Il tempo, abbastanza galantuomo, ci prendeva per mano e come un buon maestro, quasi senza più voce, ci educava con il presentarci tutto quel mondo malridotto e così ricco di pedagogia delle piccole cose quotidiane. Ma i “mondi” che si contendono il mondo dei poveri hanno messo in essere scenari ora reali, ora simbolici per garantirsi pur sempre parti di quel mondo. Il rapporto povertà/mondo non trovava vie d’uscita se non nella solidarietà e nella preghiera.
Così, anche la nostra idea di erranza educativa sulla quale avevamo speso tempo e ricerca subiva una metamorfosi quasi radicale: la nostra coscienza, in silenzio e nel camminare la stessa terra dei poveri, ci richiamava al dovere di conoscere la realtà e di leggere dentro le “cose”, proprio quelle cose alle quali dobbiamo comunque tornare per riassestare un po’ la nostra visione di quelle periferie del mondo e la nostra coscienza che rischiamo spesso di delegare ad altri o ad approcci culturali che non centrano il problema ma che ci decentrano e ci inducono a delegare o a passare sotto silenzio proprio quei vissuti in virtù dei quali la persona trascende le piccole cose e si trascende verso valori e ideali alti.
G.Vico

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