Scritto da Monica Cristini

Cammino verso il refettorio dove i ragazzi più grandi studiano la mattina dalla 7:45 alle 9:00, dopo essere andati a messa e aver fatto colazione, e sento una voce che mi chiama. E’ Mingo da una finestra senza vetri del dormitorio che mi chiama e appena mi avvicino mi chiede: “Vamos trabalhar no quarto hoje?” (puliamo il dormitorio oggi?). Subito dopo da dietro uno dei tanti letti della stanza spunta Jaci che mi fa la stessa domanda e allora sento che la felicità degli ultimi tre giorni è destinata a crescere e la rabbia e l’indignazione delle ultime settimane forse piano piano a diminuire.

Già, sono queste le emozioni e i sentimenti provati da quando è iniziato questo viaggio che hanno preso il sopravvento anche sulla gioia di aver intrapreso questa esperienza: a Luanda il degrado e la povertà mi hanno colpita come un pugno in faccia, qui a Huambo si sono aggiunte la rabbia e l’indignazione.

Rabbia per ciò che si potrebbe fare e non si fa, anche solo con le risorse già disponibili.

Rabbia per l’indifferenza che è come un’enorme campana sotto cui vivono i ragazzi che soffoca ogni aspetto della loro vita.

Rabbia, per contro, per ciò che, gestito rigorosamente, funziona e si ripete con cadenze regolari ogni giorno e non ha nulla a che vedere con le priorità dei ragazzi.

Già, se dovessi scrivere una parola sola per racchiudere questo viaggio sceglierei proprio questa: priorità. Mi riferisco a quelle priorità che in Italia, in Angola, o in qualsiasi altra parte del mondo fanno parte della dignità umana e, in quanto tali, vanno riconosciute, tutelate e perseguite, se necessario.

Perché non c’è differenza tra un bambino che si fa male qui, tanto da accasciarsi al suolo per il dolore, sotto l’indifferenza mostruosa di tutti, o se accadesse la stessa cosa in un altro posto.

Non c’è differenza tra un dormitorio sudicio, pieno di terra e sporcizia, dove sessantasette ragazzi “vivono” in condizioni igieniche pietose, con i topi nei materassi distrutti, senza luce, senza acqua, né sanitari nei bagni che bagni non sono, qui o dovunque sia.

E allora, come sfogare questa rabbia? I modi di certo potrebbero essere tanti.

Ma qui, proprio in virtù di quelle priorità tanto disattese, provare a cercare delle soluzioni diventa un dovere. Non si possono chiudere gli occhi, restare seduti a braccia conserte perché “tanto quando ce ne andremo tornerà tutto come prima”, “tanto non cambierà mai niente”. Perché le soluzioni ci sono per chi ha il coraggio e la voglia di fare e di ascoltare.

Così, tutte le mattine e tutte le sere ci siamo sedute a studiare con i ragazzi lasciati soli nel refettorio senza neanche l’ombra di un educatore.

Una mattina, quando la rabbia stava per esplodere, armate di scopettone e candeggina, siamo entrate nel dormitorio e abbiamo ripulito prima una “stanza”, quella in cui sono relegati i bambini che fanno ancora la pipì a letto e, il giorno dopo, i due “bagni”.

Perché insegnare ad un bambino le addizioni non è niente: non saprà fare le sottrazioni ma intanto ha imparato le prime e potrà iniziare a studiare le seconde; mostrargli uno scopettone e insegnargli a pulire la stanza che condivide con altre venti persone non è niente: non pulirà tutti giorni e ci sarà tra quei venti qualcuno che non pulirà mai ma la situazione sarà di certo migliore rispetto a prima. Guardare i loro occhi mentre puliscono con me e Francesca non è niente: quegli occhi che sorridendo, ci ringraziano.

E ancora, porre domande a chi questi ragazzi li segue e continuerà a seguirli anche quando noi ce ne andremo, cercare risposte, motivazioni, giustificazioni, vedere gli occhi di uno di loro luccicare sotto l’incalzare delle domande pressanti, due su tutte, “Come si può vivere così? “Perché i ragazzi devono vivere così?”

E’ educare: porre una pietra dopo l’altra per costruire il cammino di ciascuno di noi. Dei ragazzi, delle persone, educatori e non, che vivono o lavorano con loro, nostro, che abbiamo fatto un viaggio così lungo per imparare, sperimentare, scoprire, insegnare, educare ed essere educate.

Così, in una struttura religiosa in cui ci sono due funzioni al giorno, al mattino e alla sera, a cui sono chiamati tutti i ragazzi presenti nella struttura, il cui messaggio all’ingresso principale è “Rezar, Estudar, Trabalhar, Brincar” (Pregare, studiare, lavorare, giocare), il primo giorno di pulizie nel dormitorio, la funzione della sera è stata preceduta da un discorso sull’importanza del lavoro svolto durante la giornata; il secondo giorno, inaspettatamente, la funzione non ha avuto luogo. Al suo posto, uno dei seminaristi, ha impiegato tutto il tempo per parlare dell’importanza dell’igiene personale, del rispetto e della cura che bisogna avere del proprio corpo e degli spazi comuni e della necessaria responsabilizzazione di ognuno su questi temi.

Ora, mentre scrivo, seduta su un abbeveratoio per animali, dove i ragazzi più grandi vengono spesso a lavarsi con i secchi, ripenso alla richiesta di Mingo e Jaci di questa mattina di pulire il “quarto”, alla funzione saltata, all’educatrice che ho visto poco fa, per la prima volta, lavorare insieme ad alcuni ragazzi; e vedo in lontananza altri due ragazzi che stanno venendo da me a riportarmi ciò che resta dei prodotti che mi hanno chiesto questa mattina per pulire senza che nessuno glielo imponesse.

Altre pietre che costruiscono il cammino.

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