Scritto da Clara Chiavoloni

La comunità Ambalakilonga qui in Madagascar ha un ritmo di vita tutto suo. E’ un’oasi di equilibrio in contrasto all’apparente disordine che c’è fuori. Di volontari qui ne arrivano molti, i ragazzi sono abituati a questo. E’ una settimana esatta che io, Franca, Cecilia e Aurora siamo arrivate. Finora abbiamo conosciuto alcune realtà che si danno da fare per migliorare la situazione dei villaggi, come l’Associazione Vozama, l’orfanotrofio delle suore Nazarene e l’oratorio Don Bosco; abbiamo visitato la città di Fianarantsoa, fatto visita ai villaggi vicini e familiarizzato con le indispensabili regole di convivenza della comunità. Non è semplice inserirsi in una realtà diversa dalla propria. Forse, provenendo da un Paese più sviluppato, arriviamo in zone di povertà credendo di dover rivoluzionare le cose, in base anche alle nostre abitudini e credenze. Ambalakilonga non ha bisogno di essere rivoluzionata. Qui sei tu lo straniero, un “vazah”. Sei tu che senti di doverti conformare. Senti di dover ridimensionare gli eccessi, i fronzoli e le maschere della tua personalità per presentarti come sei veramente. Qui i ragazzi, anche se non parlano italiano (alcuni sì, e anche bene) capiscono quello che è vero da quello che non lo è. E’ come se esistesse un linguaggio universale, ma che non si studia a scuola, che prescinde da quello che viene detto con la parola. Esprimendoci in lingue diverse la parola non è più un mezzo ma un ostacolo. Così bisogna trovare vie diverse e originali per farsi capire. Dopo già sette giorni di permanenza qui, quelli che prima erano saluti freddi ed educatamente dovuti, ora sono accompagnati da un nome e un sorriso, i momenti divertenti vengono condivisi con l’aggiunta di un battito di cinque e di un abbraccio, oppure semplicemente condividendo la quotidianità dei giorni ci si avvicina. Ad Ambalakilonga la vita ha un ritmo rallentato. Nei primi giorni, durante i cosiddetti momenti “morti”, sentivo quell’ansia di doverli riempire per forza con qualcosa, forse come lascito della mia quotidianità frenetica in Italia. Qui invece sei obbligato a fermarti, a prendere tempo, a smetterla di voler “fare”, ma lasciare che le cose avvengano spontaneamente. Così anche il momento più semplice diventa speciale. Qui ogni cosa ha il suo giorno, il suo orario, il suo momento; c’è il momento di cantare e ballare, ma c’è anche quello del silenzio; c’è il momento di scherzare e c’è il momento del rimprovero. Ognuno a turno ha il suo compito, che va dal fare la corvée in cucina, a fare il “guardiano”, vangare l’orto, lavare la macchina, senza mai che qualcuno mostri il muso, fatica o rifiuto. Mi ha stupito quanto qui il valore della condivisione sia importante. A pranzo non si incomincia a mangiare finché non ci sono tutti, così come per la preghiera serale. Anche nel nostro gruppo di viaggio è importante, sia per le cose materiali che per le aspettative, i dubbi e i problemi.

Un ingranaggio perfetto.

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